Racconti 1-8

 


N.1   Il Drago

 

L’uovo era rimasto secoli e secoli, forse millenni, coperto dalle acque, in fondo al lago. Poi, all’improvviso, un terremoto o la caduta di un fulmine o chissà che altro, l’aveva sbalzato fuori dal profondo abisso sulla riva, come un grosso sasso qualunque, e lì il sole caldo dell’estate l’aveva a lungo accarezzato. Piano piano in sette giorni o sette settimane o sette anni (questo non lo possiamo sapere)  la superficie si era incrinata e, dalla fessura allargata, era spuntata fuori la testa umidiccia  e scarmigliata del Draghetto.
L’occhio lucidissimo, ancora le zampe come tutte annodate tra loro, la cresta e le corna pressoché inesistenti, il piccolo nato era sgusciato fuori e aveva mosso traballando i primi passi. Subito dopo: “Fame, fame!”
Eh, sì! Si era reso conto di aver una gran fame! Aveva cominciato a guardarsi attorno.  Per fortuna tutto era buono per lui: l’erba, gli insetti, i fiori, i funghi.  Se qualcuno avesse dovuto catalogarlo per le sue preferenze in fatto di piatti culinari… l’avrebbe definito con una sola parola: onnivoro! Dunque nutrirsi non era un problema. Il problema era riuscire a diventare grande, cioè adulto, con tutte le sue meravigliose capacità sviluppate, senza venir ucciso prima dai suoi nemici naturali. E questo, di dover stare molto attento, lui lo sapeva ancor prima di uscire dal guscio! Sapeva anche di avere una missione molto importante da compiere, ma ancora non gli era chiaro quale fosse, ricordava vagamente di dover “attuare delle potenzialità”.
Come caratteristica fisica era “anfibio” e infatti, dopo aver ben mangiato, se ne tornò subito nel lago, dove  si sentiva molto più protetto. Misurava quasi un metro di lunghezza, ma quando fosse divenuto adulto, sarebbe stato di ben sette metri, coda compresa.
Per crescere doveva alternare cibo, acqua e sole e per il cibo e il sole doveva lasciare il suo rifugio almeno una volta ogni due o tre giorni. Quando usciva però non si allontanava mai troppo dalla riva, pronto a rituffarsi al minimo pericolo e, prima di uscire, ascoltava sempre a lungo e guardava attentamente che non ci fossero nemici in vista. Ma chi erano questi suoi nemici? Finché era piccolo tutti gli animali che succhiano il sangue (il sangue del Drago è dolce e caldo) e sempre il Serpente.
Il Serpente è il suo fratellastro invidioso, quando morde il Drago gli fa perdere tutti i poteri e lo rende simile a se stesso, capace solo di strisciare e di avvelenare. Il Draghetto dunque cercava sempre di essere molto accorto, ma nonostante tutta la sua prudenza non sapeva che fin dal primo giorno, da quando era nato, due occhi lo avevano sorvegliato con attenzione. Da dietro un albero un Ragazzetto di circa quattordici anni l’aveva visto nascere. Il Ragazzo, che andava spesso a giocare o a suonare il flauto in riva al lago, quella mattina fatidica era lì, come la altre volte; quando aveva visto quel grosso uovo schiudersi, di era nascosto. In realtà il Draghetto gli era piaciuto moltissimo e il suo primo impulso, dopo averlo visto, era stato quello di correre ad accarezzarlo, dargli un Nome, addomesticarlo insomma; ma quando era stato lì lì per farsi vedere e fare amicizia, il Draghetto si era già rituffato nell’acqua. Il Ragazzo, il cui nome era Ymir (che vuol dire “il Germogliante” o “Colui che si risveglia”) da allora era venuto tutti i giorni al lago, sperando di vedere il “suo” Draghetto e, sempre dietro l’albero, aveva aspettato che quello uscisse; solo qualche volta era riuscito a vederlo e sempre per talmente poco tempo da dubitare persino della sua realtà.
Un giorno Ymir decise di portare con sé una tazza di latte e miele da offrire al Draghetto. La pose proprio sulla riva del lago e andò ad appostarsi dietro il solito albero. Attese a lungo, ma alla fine la sua pazienza fu premiata. Il piccolo Drago che nel frattempo era cresciuto e diventato molto più bello, uscì dall’acqua e si mostrò. Il sole si rifletteva sul suo dorso loricato tutto bianco, creando dei meravigliosi riflessi madreperlacei. In mezzo agli occhi una luce come uno zaffiro purissimo di dimensioni enormi, mandava lampi.
Egli, uscito dunque dall’acqua, sentì l’odore gradevole del latte e del miele e, incuriosito, si diresse verso la ciotola profumata; ne assaggiò il contenuto e lo trovò buono, anzi molto buono: “Sì, quello era vero cibo, altro che verdure e insetti!” E così prese a lambirlo avidamente.
Intanto però un grosso Serpente il cui nome era Heimdall (che vuol dire Umido Vitale), anch’esso attirato dall’odore del latte e del miele si era avvicinato strisciando cauto sull’erba. Aveva pure adocchiato il Draghetto, ma voleva essere sicuro della sua identità.
Una tazza di latte sarebbe stata davvero una colazione meravigliosa e in più, se fosse andato tutto bene, sarebbe passato alla storia (dei Serpenti, naturalmente) per aver contribuito all’estinzione dell’aborrita razza dei Draghi; un morso solo e l’avrebbe neutralizzato, ridotto allo stato di semplice Serpente!
Quale era la ragione di questo odio tra Serpenti e Draghi? Oh, era una storia vecchia, narratagli da uno dei Serpenti più anziani, che risaliva alla maledizione del Primo Serpente, quello che all’inizio stava nel Grande Giardino, e che aveva allora tutte le caratteristiche del Drago.
Quell’Antico Avo era sto accusato del gravissimo reato di “istigazione a delinquere”, trovato colpevole e condannato a strisciare e alla perdita di tutti i poteri; con lui erano stati condannati tutti i suoi discendenti, o meglio, quasi tutti, perché tra i nati da serpente ce ne erano alcuni, rarissime eccezioni, esenti inspiegabilmente dalla maledizione: erano i cosiddetti Draghi. La differenza probabilmente si produceva nell’uovo, forse dipendeva da come o da dove veniva conservato, ma i Serpenti Capi non erano mai riuscita scoprire le vere cause delle eccezioni; fatto sta che quei serpenti “diversi” dovevano a tutti i costi essere parificati agli altri, ridotti alla normale serpentinità, “morsi” e resi impotenti da piccoli, così almeno diceva la Legge del Serpente.
Heimdall riconobbe dunque la creatura che gli stava davanti come un vero Drago e stava per scattare, attaccarlo e morderlo nella parte più tenera, l’addome quando, ignorando la presenza di Ymir, che nel frattempo aveva visto il pericolo che incombeva sul suo Draghetto, eresse “troppo” la testa, si scoprì e fu colpito dal sasso lanciato con la fionda dal Ragazzo. Non fu un gran colpo, ma sufficiente a far retrocedere e mettere in fuga Heimdall, che certo non se l’aspettava.
Fu in quell’occasione che Ymir e il Draghetto si guardarono negli occhi e si compresero. Ymir diede al Drago il nome Naudiz (che vuol dire Fuoco) e da allora divennero amici inseparabili, si vedevano tutti i giorni. Naudiz cresceva e Ymir lo proteggeva mentre mangiava e si fortificava. Ymir suonava il flauto e Naudiz batteva il tempo oppure ascoltava. Tutti e due dovevano però guardarsi sempre da Heimdall. Naudiz aveva qualità telepatiche e, ora che l’aveva conosciuto, poteva “sentire” il Serpente a distanza, così comunicava a Ymir la sua posizione e si mettevano entrambi al sicuro.
Quando Naudiz raggiunse i tre metri cominciò a provare un fastidioso senso di prurito alle spalle, fu allora che Ymir gli salì sul dorso e l’aiutò a liberare le ali dalla membrana loricata che le aveva ricoperte fino ad allora. Ma Naudiz non sapeva volare. Ymir lo incoraggiava ma Naudiz, crescendo si faceva sempre più pesante e dubitava sempre di più di poter riuscire a sollevarsi da terra.
Trascorsero mesi e mesi in tentativi e discussioni (sempre attenti ai possibili attacchi di Heimdall).
Un giorno mentre giocavano sulla riva del lago (Naudiz aveva raggiunto la lunghezza di sette metri ed era sempre più bello), il Drago sentì il Serpente, vicinissimo, che li studiava.
Come era riuscito a sorprenderli? La spiegazione era semplice: Heimdall si era arrotolato sull’albero, quello stesso albero dietro il quale si era nascosto Ymir quando aveva visto nascere Naudiz, e lì si era addormentato, per questo le sue onde pensiero non erano pervenute a Naudiz.
Ma ora le immagini-pensiero di odio e distruzione erano chiarissime: il Serpente stava studiando il modo di uccidere il Ragazzo e di avvelenare il Drago; il suo timore era di non riuscire nel suo intento completamente; temeva la reazione del Ragazzo se avesse morso il Drago, del Drago se avesse morso il Ragazzo. Per questo esitava.
Questa esitazione fu sufficiente.
Naudiz, mentre si portava in posizione di attacco, trasmise l’idea del pericolo al Ragazzo, questo prese dalla tasca il flauto e cominciò a suonare una canzone dolcissima, la più dolce che avesse mai suonato.
Il suono di quella musica, come per incanto, fece srotolare il Serpente dall’albero e lo fece cadere nell’erba. Naudiz prese a soffiare dalle nari, concentrando sul Serpente il potere della luce in mezzo agli occhi. Ymir intanto gli era salito sul dorso e si era accomodato proprio in mezzo alle ali. E fu proprio quel soffiare ritmicamente nel tentativo di produrre il Fuoco che sentiva ardergli in petto che fece agitare a Naudiz le ali nel “modo giusto”. Soffiava sempre più forte; dalla sua bocca aperta uscì, alla fine, il primo gettito di Fuoco Magico.
Il Serpente fu incenerito.
Ma un altro fenomeno si era verificato: le ali, agitate nel “modo giusto”, avevano permesso il sollevamento di pochi centimetri da terra della pesante mole del Drago.
Ymir allora gli gridò: “Ancora, ancora, più forte, più forte, questa volta ci riesci!”
Naudiz continuò a soffiare e ad agitare le ali, Ymir ad incoraggiarlo.
In breve si ritrovarono tutti e due in cielo.
Volavano, volavano in alto; ora diventati una cosa sola, volavano verso il sole, felici, verso l’Eternità.

 

 

N.2    La Cavalla

 

C’era una volta una cavallina tutta bianca; quando era nata i suoi genitori l’avevano chiamata Bjarkan. Le prime cose che aveva veduto erano stati i boschi di pini che crescevano folti sulla riva del mare. Si era nutrita di pruni salmastri e di tamerici, aveva galoppato per gioco e per il gusto degli spazi infiniti lungo la spiaggia, spesso sola, a volte insieme agli altri cavalli del suo branco. Aveva goduto la vista delle albe più splendenti e dei tramonti più romantici e conosciuto l’ebbrezza del vento più sottile, quello che scompiglia le criniere e porta alle narici frementi l’odore pungente di terre lontane e sconosciute.
Bjarkan era una puledra forte e selvaggia, giovane e scattante e in quella sera d’autunno inoltrato pascolava in una radura poco lontana da una piccola baia. La luna, sorta da un pezzo, illuminava il paesaggio con una luce argentea e incerta. Bjarkan (che vuol dire Terra) guardava l’erba in basso e seguiva un suo sentiero immaginario, certamente gastronomico, senza occuparsi d’altro.
E’ vero, si era allontanata un bel po’ dal branco, ma non più di tante altre volte e aveva tenuto sempre le orecchie appuntite tese, attente ai rumori meno famigliari e perciò più pericolosi.
“Ancora un poco di questa buona erbetta e poi torno subito indietro”, si era detta più volte. Così di cespuglio in cespuglio, sempre a testa bassa, era giunta in un luogo affatto sconosciuto.
Si trovava proprio di fronte all’imbocco di una grotta e subito oltre intravedeva un qualcosa di strano, completamente nuovo. Bjarkan stava per fare dietro-front e lanciarsi al galoppo quando, avendo esitato un attimo di troppo fu attirata da una voce chiara e dolce che diceva: “Bjarkan, Bjarkan, dove corri? Fermati. Resta con Me. Ti insegnerò tutto quello che ancora non sai”. La cavallina fece ancora un passo, voleva rendersi conto: a chi apparteneva la voce sconosciuta? Chi era che conosceva così bene il suo nome? E intanto pensava: "Tanto faccio sempre in tempo a fuggire (Bjarkan era sempre la prima nelle gare tra i giovani cavalli del suo branco) e poi, di che cosa dovrei aver paura?” E allungava il collo per vedere nella grotta. Ma non vedeva nessuno. Allora domandò: “Chi sei tu? Che cosa mi vuoi insegnare?”!
“Giallo, quadrato, grande!…” Si udiva ora risuonare nella grotta.
Che cosa voleva dire? …”Giallo, quadrato, grande!…” Era come un’eco. Bjarkan affascinata entrò.
Non c’era nessuno. Era vuota. Solo sul pavimento, disegnato, un quadrato grande e giallo. Bjarkan stette a lungo incerta, poi, all fine, varcò il limite del quadrato e si pose proprio al suo centro. Allora le pareti della grotta presero a girare  (o il quadrato su cui si trovava Bjarkan, questo non lo sappiamo) e apparve sul soffitto come uno schermo luminoso: Bjarkan conobbe il mare. Quel mare che aveva ammirato da lontano tante volte essa lo conobbe dall’interno, nei suoi abissi più profondi, come se ci fosse completamente immersa; divenne piccola e regredì nel tempo: anni, secoli, millenni, forse eoni, indietro, sempre più indietro, alle origini della vita, là dove era cominciata ogni vita. Udì il Suono primordiale che aveva dato inizio al giuoco fantasmagorico dell’esistenza. Udì l’Om modulato dall’Eternità che tutto compenetra e che da tutto vuole risposta a cominciare dall’elemento più terrestre. E udì l’alga rispondere, la stella marina rispondere, la medusa e il corallo rispondere, tutti che dicevano: “Sì”.
Ognuno riceveva il suo compito, ognuno l’assolveva nei limiti delle sue possibilità e tutti, fino ai pesci più evoluti, tutti obbedivano alla Grande Legge. Poi sullo schermo vide la campagna, vide i monti e le valli e udì l’erba dire di sì, gli arbusti e gli alberi: sì; poi gli insetti e gli anfibi, tutti i volatili dai più piccoli ai più grandi, tutti ricevevano il loro comando e tutti si conformavano ad esso. E udì il topo dire di sì; il bufalo: sì, la tigre e il gatto: sì, il drago e il serpente: sì, la capra e la scimmia: sì, il gallo il cane e il cinghiale: sì. Tutti dicevano: “Sì”.  E poi vide sullo schermo una cavallina bianca che brucava l’erba dalle lunghe zampe nervose, l’occhio grande e vivace e ancora udì la Voce: ”Allora, che cosa mi rispondi, Bjarkan? Anche da te voglio il consenso!”
Ma Bjarkan esitava… certo, avrebbe dovuto dire di sì, ma a che cosa, a quale lavoro doveva acconsentire?
Ora il quadrato giallo su cui si era fermata aveva smesso di girare (o le pareti della caverna avevano smesso di girare, che era poi la stessa cosa) e fuori della grotta si intravedeva la luce del sole. Possibile? Era trascorsa tutta la notte in quella strana esperienza? O era stato tutto un sogno?
Bjarkan uscì lentamente, sentiva le lunghe gambe nervose come malferme; fuori della caverna, nell’erba, luccicava qualcosa.
Qualcosa di metallo brillava nell’erba.
Era un aratro.
Qualcuno avrebbe legato ad esso Bjarkan, dolcemente, e poi l’avrebbe spinta avanti e indietro, regolarmente.
La Terra doveva essere arata.
Bjarkan sospirò e disse: “Sì”.

 

 

N.Difficile inizio

 

Quell’anno l’inverno sembrava non volesse finire mai; da tre lunghi mesi su tutta la campagna in continuazione si era stesa a più strati la coltre bianca della neve e gli alberi scheletriti avevano continuato a rabbrividire da quando la morte autunnale li aveva sfiorati col suo tocco gelido: tutto pareva desolato e nudo da un’eternità. Lui era piccolo, aveva fame, freddo e paura.
Ricordava con nostalgia il sole, il caldo dell’estate, il cielo azzurro, il canto degli uccelli, la compagnia dei fratellini nella casa comoda e profumata tutta piena di stanzette. Perché mai proprio a lui era capitata quella strana avventura?
I fratelli e tutti quelli della sua famiglia erano andati via come programmato tanto tempo prima, lui solo, per errore sicuramente, era rimasto lì, dimenticato da tutti. E’ vero, aveva dormito a lungo e da mangiare ne aveva sempre avuto a sufficienza, ma ora tutto era finito e la sua comoda casetta a causa dell’acqua e dell’umidità presentava due crepe assai profonde;  avrebbe dovuto senza dubbio uscire e darsi da fare… ma aveva paura. E poi fuori era tutto buio e, come se non bastasse, udiva per la prima volta da quando si era svegliato, l’ululato del vento, forte e violento come non lo aveva mai sentito prima e a tratti come degli schianti e dei boati: non erano certo suoni atti a rincuorare uno che doveva uscire di casa perché aveva fame e si era accorto che la casa gli stava crollando addosso.
Quello che più lo infastidiva era quell’obbligo di “dover fare” senza sapere di preciso né cosa né perché e soprattutto senza averlo voluto. Aveva egli mai desiderato di rimanere lì in quel posto tutto da solo? Aveva mai sognato avventure pericolose o mete irraggiungibili? Esaminava attentamente le azioni, i sentimenti e i pensieri di tutta la sua vita e non gli riusciva di trovare in sé alcuna colpa: egli avrebbe voluto solo andare con i suoi verso la comune felice sorte di tutti quelli come lui oppure… sì, ora si ricordava! Una volta discutendo con i fratelli del colore del cielo aveva asserito di essere in grado di toccarlo e perciò di poterne lui solo giudicare l’esatta sfumatura… ma era stata una sciocchezza, una vanagloria infantile ed ora era lì, pieno di problemi e tutto intorpidito, altro che in cielo! E c’era un’altra cosa che lo inquietava: prima di addormentarsi era tutto rotondetto e sempre a suo agio in casa, ora invece si sentiva “diverso” e aveva proprio bisogno di darsi una stiracchiata… ma che c’era sulla sua testa all’esterno della sua casetta tutta crepata? Un enorme masso di terra compatta! Come avrebbe potuto spostarlo tutto da solo? Scoraggiato si raggomitolò per un ultimo pisolino e in quel dormiveglia sognò di sé: si vide grande e forte, con tanti uccellini intorno, udì le risate dei bambini e le promesse degli innamorati, il mormorio del ruscello e lo stormire delle fronde, il sussurro del bosco e dei suoi elfi e il ronzio delle api e si sentì incredibilmente felice: quella era la vera felicità!
Fu in quel momento che un tuono più forte degli altri lo destò bruscamente e gli procurò come una scossa elettrica; sentiva ora uno strano rumore sulla sua testa, come acqua che scorresse a rivoli, il vento fischiava sempre, ma ora pareva dire sottovoce: “Su, alzati è ora!”; dalle fessure della casetta l’aria penetrava nell’interno e forse non era più così fredda come prima. Se avesse proprio voluto quel masso forse avrebbe anche potuto spostarlo… ci provò.
La casetta si aprì in due e il piccolo Seme del Pino allungò la radicina in basso, nella terra, e fece svettare Il suo ciuffetto di aghi verdi verso il cielo, spostando quel mucchietto di terra che lo aveva ricoperto per tre mesi. La neve si era quasi sciolta del tutto e il cielo ancora tutto corrucciato sembrava borbottare per essere stato disturbato per tanto poco… in lontananza ad oriente si intravedevano i primi albori del giorno, era quasi primavera ed era nato un Albero.

 

 

N.4  Il Discepolo sciocco

 

Narrano le antiche storie indiane che una volta, tra i tanti discepoli del Buddha fosse capitato un ragazzo di nome Mong, molto ingenuo, considerato da tutti un po’ stupido. Ananda, il primo discepolo del Buddha (per attenzione e memoria) non riusciva a capire perché mai il Maestro avesse tanta pazienza con quel giovane sciocco: se lo teneva vicino, gli risparmiava i lavori più faticosi della vita comunitaria, gli spiegava e rispiegava le cose e gli dimostrava apertamente una gran predilezione.
A tal punto si era creato il malumore tra gli altri discepoli che un bel giorno una loro delegazione, con a capo sempre il solito Ananda, si recò dal Maestro per chiedergli di rivedere il suo comportamento con il giovane Mong, causa di discordie e di invidie.
Il Buddha ascoltò con molta attenzione le lamentele e le recriminazioni dei suoi discepoli e poi, per tutta risposta raccontò loro questa storia: C’era una volta un principe tanto triste che viveva in un palazzo sontuoso, circondato da un enorme parco. Il principe si annoiava assai con gli affari di stato e, innamorato della natura, trascorreva nel giardino la maggior parte del suo tempo libero. Sapeva suonare il flauto molto bene e spesso, mentre suonava, sentiva gli uccelli dell’aria accompagnare la sua musica con i loro canti.
Allora desiderava comunicare con loro per sapere che cosa provassero a volare così liberi in cielo, ma benché si esercitasse tutti i giorni, da anni, non riusciva ad entrare in contatto telepatico con i suoi accompagnatori canterini. Poi un bel giorno, sempre mentre suonava, un bell’uccello grigio, con le ali puntinate di bianco gli si avvicinò e gli si posò sulla spalla. Il principe, felicissimo, all’inizio non osava muoversi, poi dolcemente prese ad accarezzarlo; le carezze furono molto gradite alla bestiola e così le briciole di pane offerte in segno di amicizia, ma la cosa meravigliosa per il principe era questa: egli poteva parlare mentalmente con il suo nuovo amico, quello rispondeva alle sue domande, gliene faceva a sua volta e non c’era alcun bisogno di emettere suoni con la voce. Il principe chiamò l’uccello grigio Ta Yu (che vuol dire “possesso grande”) e gli chiese di tornare il giorno dopo; esso promise e volò via. Il giorno dopo, alla stessa ora, era lì, puntuale, disposto a cantare, a farsi accarezzare, a comunicare, a beccare briciole e pezzi di frutta delicatamente offerti. Era certo un uccello straordinario, affettuoso e intelligente, ma alla richiesta del principe di insegnargli a trasmettere i suoi pensieri anche agli altri uccelli, Ta Yu oppose un netto rifiuto, spiegando che non era possibile a causa della troppa potenza delle onde mentali umane, capaci solo di sconvolgere il piccolo sistema celebrale dei suoi compagni; per lo stesso motivo, anche con lui, la possibilità di comunicare non avrebbe potuto durare a lungo. Il principe si dispiacque ma continuò a chiedergli di tornare. La cosa andò avanti per alcune settimane poi, una volta che egli era seduto presso un canale, Ta Yu arrivò in ritardo sul solito appuntamento e subito si dimostrò assai nervoso e inquieto; alla domanda del principe sul motivo dello strano comportamento gli trasmise la sensazione di un gran pericolo vicino e immediatamente si levò in aria, poi picchiò e atterrò nell’erba alta del canale, non più lontano di un metro da dove si trovava prima. Il principe lo vide dibattersi e poi volare via con in bocca un pezzo di coda di serpente, poi tornare, di nuovo affrontare il nemico e ancora dibattersi. Egli avrebbe voluto intervenire ma captò mentalmente la preghiera di Ta Yu: “No! Il serpente è velenoso e ti ucciderebbe”; poi se lo vide, ferito a morte, cadere ai piedi in un ultimo drammatico volo. Allora si chinò a raccoglierlo e gli chiese piangendo di non morire, ma l’uccello grigio rispose che il suo tempo era ormai terminato, che la prossima volta sarebbe rinato come un ragazzo, di nome Mong e che sarebbe stato suo discepolo.
Così il Buddha sospirò e terminò il suo racconto.
Da quel giorno tutti i discepoli furono molto più gentili con Mong; gli erano grati di aver salvato col suo sacrificio la vita del Maestro, perciò lo aiutarono a crescere sul Sentiero, cosicché egli ben presto progredì ed ottenne l’illuminazione.

 

 

N.5  L’Attesa

 

C’era una volta in fondo al bosco una casa e nella casa una vecchia solitaria. Gli abitanti dei paesi vicini la consideravano tutti una strega un po’ pazza, però spesso andavano a chiederle consiglio e in cambio le portavano da mangiare. Al tramonto la vecchia era sempre alla finestre a guardare il sole con gli occhi stanchi e un ricamo tra le mani; sembrava sempre aspettare qualcuno o qualche cosa, ma quando gli occasionali passanti o consultanti le facevano domande precise al riguardo, rispondeva sempre con un sorriso indefinibile. Ma chi mai avrebbe potuto aspettare alla sua età? Forse aspettava il ritorno di qualcuno che l’aveva abbandonata da giovane, un marito, un amante, un fratello, un figlio? O forse aspettava solo la fine della vita? Chi passava di là la mattina la trovava invece sempre a lavorare nel giardino o nell’orto, china sulle pianticelle che le servivano per preparare le sue pozioni medicamentose, oppure china sulle verdure e insalate che le servivano da cibo quando non aveva altro di cui nutrirsi.
Ma da un po’ di giorni qualcosa era cambiato: se qualcuno un po’ curioso (come noi) fosse stato lì a guardare attentamente quello che faceva, avrebbe trovato il suo comportamento molto strano. La vecchia scavava la terra ora qui ora lì e faticosamente portava alla luce qualcosa di bianchiccio e di varia forma. Era come se ubbidisse ad un comando ben preciso e come se seguisse un itinerario ben stabilito: scavava ora dietro al recinto, ora presso il roseto, ora vicino al sicomoro, ora sotto il fico, ora sotto la mimosa; e da ogni buca, ne scavava una ogni giorno, traeva fuori il suo trofeo; ripuliva il pezzo trovato con gran cura e lo riponeva in una cesta che si teneva sempre vicino. Ogni giorno la sua collezione si arricchiva e ben presto la terra all’intorno fu tutta buche; la vecchia appariva sempre più vecchia e curva e non si sarebbe mai creduto che avesse fatto tutto quel lavoro da sola.
Poi un mattino, un’ora prima dell’alba, invece di continuare il lavoro di scavo, si recò ai piedi della quercia con la sua cesta e lì cominciò a tirar fuori un pezzo alla volta del suo tesoro, ricomponendo, con i pezzi che man mano tirava fuori, un disegno preciso. Ogni pezzo veniva guardato intensamente, quasi assorbito e collocato nel punto giusto come per ispirazione; i pezzi erano ossa e la composizione uno scheletro di proporzioni gigantesche. Non mancava nulla, l’ultimo pezzo infatti che completava il tutto, il teschio, essa lo collocò per ultimo.
Poi stette a lungo a contemplare l’opera sua e, come immersa in un sogno, cominciò a riandare con la mente al passato. Le immagini erano talmente vive che sarebbero apparse a chi le fosse stato vicino come visioni quasi tangibili. Si rivide, giovane e bella, passeggiare nel bosco, in quello stesso bosco, aspettando il principe biondo sul cavallo bianco della leggenda del luogo.
Rivide il mostro gigantesco che l’aveva assalita e fatta prigioniera e ricordò che poi, all’improvviso, era comparso davvero il principe, l’eroe della favola, biondo e bello, il cui nome era Hiram, che l’aveva liberata, promettendole di tornare dopo aver ucciso il gigante. Rivisse il tempo dell’attesa in cui aveva sperato invano nel ritorno del giovane Hiram, proprio invano perché la promessa non era stata mantenuta ed ella era invecchiata sempre sperando e piangendo, dopo essere stata per un certo tempo chiusa in convento.
La vecchia ogni tanto si riscuoteva dal sogno e fu in uno di quei momenti di lucidità che cominciò a percuotere le ossa del gigante con un bastone. Sentiva che sarebbe stato in suo potere resuscitare il gigante morto e introdursi in lui… ma non era quello che voleva. Non per quello aveva aspettato tutti quegli anni.
E ancora le immagini dei ricordi le si producevano innanzi agli occhi: rivide se stessa nel convento dove si era ritirata costretta dai suoi; quel convento era stata una prigione e per tutto il tempo che ci era vissuta aveva sentito la voce di Hiram che la chiamava, pregandola di cercarlo.
Ma dove avrebbe dovuto cercarlo? Ricordava poi la fuga dal convento rocambolesca e drammatica, scalando mura di cinta, inseguita dai cani e dalle guardiane e ricordava anche l’uscita dal cancello principale, incustodito, che si era aperto da solo e richiuso dietro le sue spalle, lasciando le inseguitrici prigioniere di se stesse.
Al ricordo di quella fuga così strana e dall’esito così imprevedibile, la vecchia scoppiò a ridere: rideva, rideva di sé, della sua triste e romantica vicenda e delle sue carceriere e… tanto rise che cadde sulle ossa dello scheletro ricomposto con tanta fatica.
Al contatto del suo corpo quelle ossa si saldarono, lo scheletro si rizzò in piedi e si ricoprì di carne e la carne si rivestì di luce e apparve un giovane biondo, bellissimo. “Hiram”, disse la vecchia, “sei tornato…”
Egli le sorrise: “Finalmente mi hai ritrovato! Sono sempre stato qui, vicino a te, in attesa che tu mi richiamassi in vita; il gigante ed io siamo una sola cosa, ma esso deve da me essere ucciso e smembrato     e da te ricomposto, solo così possiamo divenire un Essere Unico… vieni!”
E la prese per mano. I capelli di lei, che erano tenuti a crocchia sul capo, le si sciolsero sulle spalle e divennero tutti d’oro. La pelle grinzosa ritornò liscia come petalo di rosa. Gli occhi infossati si tramutarono in due stelle violette luminosissime.
Fu così che, mentre sorgeva il Sole, abbracciati scomparvero nel Cielo.

 

 

N.6  La Lite

 

La prima lite avvenne tra due fratelli, tra i primi due fratelli che la storia dell’umanità ricordi, e fu drammatica e funesta. Ma da ricerche approfondite da noi fatte su testi antichissimi (reperibili solo in biblioteche occulte) ci risulta che le cose non sono andate esattamente come vengono comunemente narrate e, benché quello che vien detto sia pressoché vero, risulta però incompleto  e quindi erroneamente interpretabile. Sembra che a l’inizio i due fratelli (i cui nomi erano del maggiore Nocai e del minore Eleab) andassero molto d’accordo.
Entrambi all’inizio erano stati destinati alla coltivazione della terra e tutto sarebbe andato avanti senza complicazioni se il fratello più giovane, Eleab non avesse trovato per sé troppo faticoso il lavoro di coltivare il suolo e non si fosse messo ad allevare pecore con la scusa che “economicamente rendevano di più”.
In effetti il lavoro era molto più leggero: le pecore brucavano l’erba da loro stesse, bastava portarle a spasso e intanto si poteva guardare il cielo e i fiori e magari, tra un ozio e l’altro, c’era anche il tempo di costruirsi una specie di zufolo con una canna di bambù (quello stesso strumento che poi il pronipote Baliu di lì a qualche generazione, sette per l'appunto, avrebbe perfezionato e reso celebre col nome di flauto). Fatto sta che dopo aver bighellonato tutto il giorno il nostro Eleab se ne tornava a casa e, senza complimenti, esigeva il suo piatto di pane e frutta sul tavolo (di pietra, naturalmente). La madre per non scontentarlo (Eleab era il più piccolo, essa sicuramente aveva un debole per lui e l'aveva per ciò viziato) lo serviva di tutto punto; il padre, sempre troppo stanco perché impegnato a coltivare tutto il giorno il suolo, secondo la condanna del Padrone, in seguito alla scappatella compiuta insieme alla moglie proprio all’inizio della storia, che aveva mangiato da sempre frutta o pane e frutta, quando quel figlio un po’ svagato e scansafatiche ai suoi rimproveri di non lavorare come il fratello gli aveva offerto un sasso incavato colmo di latte di pecora e un buon pezzo di ricotta, non aveva sollevato obiezioni al suo nuovo modo di lavorare e, anzi, aveva stabilito che Nocai continuasse a lavorare la terra e che Eleab  continuasse a procurare il latte e formaggio. E così era stato.
Nocai allora, vista la differenza di trattamento in famiglia, si era rivolto direttamente al Padrone per ricevere conforto e incoraggiamento e gli aveva offerto i frutti del suolo, del suo lavoro, in sacrificio. Eleab, che imitava sempre il fratello e poi migliorava il suo operato (non per nulla era nato dopo e, prima di nascere, aveva visto “dall’alto” come andavano modificate le cose) subito offrì al Padrone, pure lui, il frutto del suo lavoro, uno dei primogeniti del suo gregge.
Tra l’odore del pane bruciato e quello dell’arrosto di agnello, il secondo fu più gradito al Padrone. Il fatto poi che l’agnello sacrificato (fatto sacro) compisse un balzo evolutivo assolutamente al di fuori della normale prassi di sviluppo coscienziale delle altre comuni pecore, Gli dava uno strano eccitamento (al Padrone). Era quello un esperimento che non aveva ancora provato e che fosse venuto in mente a quel bricconcello, figlio di quella coppia scapestrata che Gli aveva fatto perdere la pazienza al punto da costringerLo a scacciarli di casa, Lo rendeva finalmente soddisfatto della piega che aveva preso tutta la faccenda.
Così il povero Nocai non solo non aveva ricevuto conforto, ma anche dal Padrone si era visto preferire il fratello più fortunato. E come se non bastasse, pure la predica gli era toccata: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala”. (1) Così l’aveva rimproverato subito dopo il sacrificio il Padrone Stesso.
Allora Nocai aveva tentato di farsi giustizia da sé, cioè di risolvere a suo modo la questione: aveva chiesto al fratello di recarsi con lui in campagna e di aiutarlo nei lavori, promettendogli in cambio l’aiuto nell’allevamento delle pecore. Ma Eleab, pur andando con lui in campagna, aveva decisamente rifiutato la collaborazione dicendo che in loro due erano state concentrate due facoltà: la mente e il braccio; che lui, Nocai era il braccio e perciò a lui toccava faticare per tutti e due. Il fratello lo pregò e ripregò inutilmente, il piccolo dispettoso non voleva cedere e così avevano cominciato ad azzuffarsi. In principio furono colpi leggeri, schivati con abilità da ambedue le parti, ma quando Eleab cominciò a canzonare il fratello dicendogli che era un buono a nulla solo capace di colpire e battere la terra, l’ira si impossessò di Nocai che non ci vide più e assestò al fratello un colpo terribile (da fare invidia a quelli che si vedono nei film di lotta giapponese), infatti egli con quel colpo uccise il fratello. Avevano voluto entrambi portare avanti la lite fino all’estremo limite: tutti e due avevano vinto; tutti e due avevano perso. Eleab non avrebbe più aiutato Nocai a coltivare la terra, proprio come desiderava, ma aveva perso la vita e la possibilità di un accordo con il fratello, almeno per quella volta; Nocai, da parte sua, non avrebbe più visto il fratello allevare pecore, ma aveva perso la propria innocenza ed anche lui la possibilità di accordarsi col fratello, scopo per cui si era incarnato.
Ma perché mai il male si era prodotto senza una vera volontà da parte di Nocai? Quale era stata la reale portata dell’atto inconsulto? Egli aveva ucciso il fratello! La prima lite aveva portato al primo omicidio. Ed ora? Eleab per quella volta aveva terminato la partita ed era uscito dal giuoco (sarebbe rinato poi come Ets), ma il povero Nocai era entrato in una spirale davvero poco invidiabile: era stato maledetto dal Padrone e inviato ramingo e fuggiasco lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, un vero disastro!
Ma…

(1) Gen. 4, 6-7
Ma da lui, poi, non si sa bene come, si ebbe la costruzione della prima città, detta Ochen e da lui nacque il primo grande allevatore di bestiame Balia e il primo musicista Baliu (che avevano ereditato le passioni del prozio Eleab), e anche il primo fabbro Alkaintub, la cui sorella Manaa divenne poi la prima esponente della razza delle “bellissime”…
Ma allora, in definitiva, forse era stato tutto previsto… tutto calcolato… forse nacque allora il proverbio che dice “che tutto il male non vien per nuocere”…

 

 

N.7  L’Esercito

 

Quella mattina di fine agosto il Maresciallo si preparava a passare, come al solito, in rivista il suo esercito; egli doveva predisporre tutto per la battaglia del giorno che si presentava dura e pesante, dato il clima caldo umido e un certo nervosismo che si sentiva nell’aria. Il nemico doveva essere respinto oltre la collina che si vedeva all’orizzonte e bisognava conquistare il lago e la pianura che si stendevano a perdita d’occhio lì, proprio di fronte all’accampamento. Due dei suoi aiutanti più fedeli lo avvisarono che tutto era pronto, facevano parte della fanteria, erano servizievoli e attenti; altri due, che costituivano gli elementi più rappresentativi del “battaglione d’assalto” gli si presentarono per avere le opportune istruzioni.
“L’esercito è ben riposato?” Domandò il Maresciallo ai suoi ufficiali.
“Ottimamente, Signore” Fu la risposta pronta e riverente.
“Il pasto è stato servito?” “Stiamo provvedendo in questo momento”
Il caffelatte era stato distribuito con regolarità e precisione, in 10 minuti tutti i soldati furono pronti alla marcia che li avrebbe portati sul campo di battaglia. Il Maresciallo passò in rivista i suoi subalterni: le armi tutte in ordine, gli elmi e le corazze lucidi e splendenti, l’animo pieno di coraggio e di entusiasmo (almeno apparente).
“Avanti, marsch!” Diede il via e la marcia cominciò.
Come si sarebbe mostrato il nemico quel giorno? Esso aveva una tecnica tutta sua, si presentava in mille forme diverse, non attaccava mai apertamente; sarebbe stato troppo bello venire a battaglia una volta per tutte, faccia a faccia, vincere o morire! Così la guerra sarebbe finita, avrebbe potuto licenziare i suoi soldati e farli tornare a casa. Invece no, era guerra tutti i giorni, guerra subdola, sottile, ingannevole, che a volte poteva anche non manifestarsi come una vera e propria battaglia e questo era ciò che più logorava l’esercito. A volte trascorrevano giorni e giorni assolutamente tranquilli e tutto lasciava supporre che il nemico avesse rinunciato, che si fosse ritirato. Allora era il momento peggiore. Quella immobilità significava che egli stava preparando una delle sue azioni più violente, e così bisognava tenere i soldati più pronti che mai, all’erta, disciplinatissimi, mentre proprio in quei periodi di tranquillità essi avevano la tendenza a rilassarsi, a chiedere licenze, a darsi malati…. Ma lui, il Maresciallo era un condottiero assai in gamba… I suoi Superiori avevano visto lontano quando gli avevano affidato quell’esercito e quel territorio. E già, perché glielo avevano assegnato in completa responsabilità, essendo quella zona assai distante dal Quartiere Generale. Quando gli avevano conferito l’incarico di difendere quel lembo di terra dal nemico, gli avevano anche dato piena libertà di organizzarne la difesa e la conquista come meglio avesse creduto. Certo, avrebbe potuto chiedere Loro consiglio, ma solo se fosse stato egli stesso capace di mettersi in comunicazione diretta con il Comando Supremo, altrimenti, fino al termine del mandato, non erano previsti interventi diretti, per nessun motivo.
Quella mattina di fine agosto dunque, l’esercito marciava di buon passo, doveva riprendere possesso della pianura, del lago e della collina, le tre postazioni che da anni erano oggetto di contestazione, esse dovevano assolutamente essere riconquistate se non si voleva mettere in pericolo l’accampamento e il forte che era il centro operativo di zona. La fanteria avanzava guardinga e impavida, il riposo della notte aveva ritemprato le forze dei soldati. I fanti degli avamposti avevano il compito di esplorare il territorio mimetizzati nella vegetazione, sorprendere le eventuali sentinelle nemiche e farle prigioniere, mai ucciderle, sarebbe stato considerato un disonore. Quel giorno furono catturate numerosi sentinelle e la marcia proseguì veloce. In breve il Maresciallo ed i suoi giunsero al lago; ora dovevano attraversarlo badando a non essere colpiti nel mentre che costruivano le zattere per oltrepassarlo; il nemico si era eretto una piccola roccaforte in un isolotto proprio al centro del lago; distrarlo con un finto attacco e prenderlo alle spalle era la strategia più adatta, difatti il Maresciallo mandò avanti due navicelle per attrarre l’attenzione del nemico e dalla parte opposta assaltò l’isolotto e lo conquistò: anche il lago era tornato nella zona di dominio. Ora toccava alla collina; quella era la parte più difficile da riconquistare perché i soldati erano molto esposti, mala tecnica del Maresciallo era assai accorta, davanti ai soldati egli metteva i prigionieri fatti nella pianura e nell’isolotto e li mandava allo sbaraglio, così il nemico rimaneva disorientato; quello era il momento decisivo, bisognava attaccare con la cavalleria, saltare nella fortezza nemica a spodestare l’usurpatore, riprendere insomma il dominio della piccola altura e lasciare lì a presidio i regolari emissari.
Il Maresciallo intuì, calcolò, ordinò: i suoi fedeli ubbidirono con entusiasmo e in breve la collina fu riconquistata e il nemico ricacciato oltre la pianura retrostante.
Il Maresciallo fece innalzare la bandiera: Vittoria!
I soldati acclamarono. Egli tornò nell’accampamento. La giornata volgeva al termine, era stata una grande giornata, il Maresciallo, il cui nome era Raido, che vuol dire “Carro”, anzi, “guidatore del Carro”, si ritirò nella sua tenda e pensò bene di provare a mettersi in comunicazione con i Superiori. Non era facile, lo sapeva bene, ma volle provarci. Fece un rapporto completo: i soldati, (che erano poi le sue stesse energie) stanchi, ma tutti in ordine; il territorio tutto sotto controllo: la pianura ben difesa (il fisico in buona salute), il lago calmo e con le sentinelle all’erta (l’astrale, i suoi sentimenti, sereni e tranquilli), la collina con la bandiera issata, sventolante vittoriosa (la mente libera e centrata su Daath): allora si sedette nella posizione del Loto ed entrò in Meditazione.

 

 

N.8  L’Unione



MoZ e FaZ si erano incontrati da bambini, forse per caso o forse perché si erano dati appuntamento in precedenza, questo non lo sappiamo; fatto sta che per lunghi anni si erano esercitati tra loro a parlare del Discorso, crescendo insieme.
La caratteristica di MoZ era la profondità, quella di FaZ la costanza.
“Tu come lo vedi?” “Così e così. E Tu?”
“Anche io, quasi allo stesso modo… però potrebbe essercene un altro!” “No, il Discorso è talmente unico che pur essendo visibile da infiniti punti di vista, alla fin fine è come se fosse visibile da un solo punto di vista!”
“Ma no!”
“Ma sì…”
Così erano passati gli anni, anzi i decenni, cercando sempre il Discorso tra i discorsi, pur nel trascorrere delle normali vicende della vita.
Poi un giorno FaZ, discorrendo del Discorso, come al solito, aveva conosciuto MraZ: parla, parla nello scambio di idee aveva ritrovato in MraZ la stessa identica esigenza di conoscenza del Discorso.
“C’è la possibilità di “vedere” il Discorso dall’inizio? Di penetrarlo volontariamente, di viverlo, o si è solo vissuti da Discorso?” Chiedeva MraZ. “Sì, c’è! Basta volere veramente, basta sperimentare”, replicava Faz. La caratteristica di MraZ era l’entusiasmo (seguito poi da grandi depressioni), ma questa qualità aveva affascinato FaZ, così insieme avevano continuato ad esaminare,  a sperimentare, tra mille alti e bassi, il Discorso. Poi un giorno una certa EaD, che si era trovata a passare nei pressi dei luoghi dove FaZ  e MraZ discorrevano del Discorso e si era fermata ad ascoltare tutta orecchi, aveva chiesto di poter cominciare a parlare anche lei e così avevano continuato il Discorso in tre, poi erano insieme andate in giro a sentire se c’era qualcun altro disposto a parlare con loro del solito Discorso (la qualità specifica di EaD era l’esaltazione).
Mentre discorrevano di discorsi, come di consueto, avevano incontrato UoZ. Erano tanti anni che UoZ parlava sul Discorso, da tanti punti di vista e con tanta gente; egli subito si affiancò a FaZ, MraZ, EaD. La caratteristica di UoZ era l’equilibrio.
Intanto MoZ, che non si era mai allontanato dal luogo del Discorso, aveva conosciuto AaZ che, pur non avendone quasi mai sentito parlare, era stata colpita dai discorsi di MoZ e iniziata da lui alla comprensione delle varie parti del discorso.
La caratteristica di AaZ era l’impegno.
Così un giorno, quasi per caso si trovarono tutti da FaZ a Discorrere e la cosa piacque. Il Discorso era vario, dapprima timido, poi sempre più chiaro e comprensibile. Furono studiati documenti sul Discorso dalle provenienze più disparate; ma ogni documento che veniva esaminato testimoniava il Discorso nel passato, esso doveva essere trasposto nel presente e reso vivo per ciascuno; ci provarono e ci riuscirono.
L’anno successivo il Discorso si accrebbe di notevoli particolari, venne approfondito e arricchito addirittura da un contro-discorso. La duplicità Discorso contro-discorso lo rendeva ancora più discorribile…
“Sono due discorsi reciproci, sono pari, sono diversi, sono conciliabili… ecc.” Così, discorso più, discorso meno, erano passati altri due anni e nel frattempo, chiamata da EaD, si era accostata LaZ, la cui caratteristica era lo spirito artistico e che aveva trovato il Discorso valido per la soluzione dei suoi problemi e così pure cominciarono a partecipare al famoso Discorso EgeZ e LdaZ, due sorelle che, a modo loro, da sempre discorrevano del discorso.
La caratteristica di EgeZ era la fierezza, quella di LdaZ la passione per la seminagione (piantar semi; in passato il primo seme del Discorso era stato interrato e innaffiato da lei).
Poi ci fu uno strano cambiamento nel fatidico giorno del terzo anniversario dell’inizio del Discorso comune: qualcosa non funzionò. Il Discorso di era alterato? Ma allora non era il Discorso con la D maiuscola! O il vaso che lo conteneva non era abbastanza robusto? Sta di fatto che in quel giorno qualcosa era mutato, in quel giorno si era fatto un silenzio, non il Silenzio realizzante, né un silenzio definitivo… solo un piccolo silenzio. Poi il Discorso riprese con più ricchezza di frasi e concetti di prima poiché si era come espanso.
Era cambiato il vaso che lo conteneva? Forse. Intanto l’esaltazione di EaD si era affievolita ed ella era andata ad ascoltare altri discorsi (pur sempre sul Discorso) e di lì a poco era scomparsa.
Ci fu poi un tentativo di portare il Discorso all’esterno… terminato in un nulla di fatto; per un certo tempo però questo contatto esterno aveva permesso ad AlaM (che avrebbe dovuto sostituire EaD) di partecipare al Discorso. Fu una partecipazione di breve durata, perché AlaM aveva trovato eccessivamente faticoso il poco lavoro richiesto per parteciparVi.
Lì per lì sembrò quasi una sconfitta per il Discorso stesso, ma come una Fenice il Discorso sapeva ogni volta risorgere dalle sue ceneri, si fece fantasioso, fiabesco e si allargò, divenne completamente aperto.
Tutti potevano venire a Discorrere, sarebbe bastato desiderarlo. Allora cominciò un via vai di piccole correnti di parole, si fecero piccoli discorsi, brevi frasi pur nel Discorso maggiore.
Nel frattempo, poiché era giunto il “momento giusto” EgeZ se ne era andata a vivere il suo Discorso integralmente e al suo posto era entrata EaZ che pure da sempre aveva discorso del Discorso, la cui caratteristica era la ricettiva contrapposizione; poi era arrivato PoZ, dalla ricca versatilità e da ultimo MsoZ di paziente precisione… e verranno altri? Ancora non lo sappiamo, stiamo qui ad aspettare Discorrendo. Discorrere, ragazzi, è affascinante!
Perché? Perché si vive meglio coscientemente!
A Chi è indirizzato il Discorso? Ma al nostro Sé nascosto!
Quando si realizza il Discorso e dove? Qui e ora.
Ma insomma “come” si Discorre? L’uno accanto all’altro, formando così l’U N I O N E. L’Unione se la guardi dall’alto è come un Cerchio robusto, ma se la guardi di lato è come una larga Coppa, nel cui Centro, quando è “buona” precipita il Divino.