Racconti 41-48



N.41  La Minorazione

 

“Nun, per favore, me la daresti una mano a spiegare ai miei lettori che cosa è la “Minorazione”?
Il solito raccontastorie per adulti bambini che doveva scrivere il raccontino mensile, suo koan del mese di settembre, aveva trovato l’accostamento “Minorazione” (41° esagramma dell’I King) – “Temperanza” (Nun, 14° lama dei Tarocchi) un po’ azzardato; così aveva pensato di interpellare direttamente la Dea e, seduto a tavolino, dopo averla evocata, le aveva rivolto questa domanda.
“Io? Ma sei matto?!! Non ci penso proprio. Mi ricordo troppo bene dell’altra volta! Eh, già, saranno passati quasi cinque anni, vero?
Allora mi convincesti facilmente a scendere dalla carta, a posare le anfore, a sedermi nella poltrona del salotto viola… ecc. ecc…. eppoi dovetti subire tutti quei rimproveri per aver interrotto il mio lavoro.
No, non parlo dei rimproveri delle mie sorelle, di quei rimproveri lì non mi sono mai preoccupata, parlo dei rimproveri non rimproveri di Lui, del Padrone… quelli non li scorderò più!… E perciò sta sicuro, stasera non mi lascerò commuovere. Assolutamente.”
Ma un lampo si accese negli occhi di Nun mentre ripensava a quell’esperienza di cinque anni prima e un mezzo sorrisetto le si affacciò agli angoli della bocca: “…Però devo ammettere che quei pochi momenti di riposo in quella poltrona viola sono stati belli, potrei dire eccezionali… ecco, in grazia di quelli, senza uscire dalla carta, senza posare le anfore e senza (purtroppo) sedermi in quella deliziosa poltrona, ti aiuterò ad illustrare la “Minorazione”. Dunque domanda e ti risponderò”.
Il raccontastorie allora si alzò dal tavolino e, entrando lui stesso nella carta, le si accostò cercando di sbirciare nelle sue anfore (una d’oro, una d’argento). Il liquido d’oro dell’anfora d’oro scendeva nell’anfora d’argento e così facendo diventava esso stesso d’argento; poi, quando l’anfora d’argento fu piena, Nun la sollevò in alto e riversò da quella il liquido d’argento nell’anfora d’oro e subito questo si cambiò di nuovo in oro.
“Bene”, disse il raccontastorie, “vedo quello che succede, so di preciso quello che fai, me lo hai spiegato chiaramente cinque anni fa…ma che c’entra in tutto questo la “Minorazione”?”
“Ma è semplice” replicò Nun, “come non vedi da te che mentre il liquido si dà, si “minora”?
La manifestazione tutta non esisterebbe se in “qualche modo” le dieci “sante” Emanazioni (Sephiroth) non si minorassero successivamente ognuna in favore delle altre e così pure non esisterebbe la Reintegrazione se il processo inverso non si verificasse puntualmente nella risalita dell’energia. Tutto si minora nel tempo-spazio a favore “dell’altro”, in ciò consiste il mutamento: il giorno cala a favore della notte, la notte a favore del giorno e così quando due forze complementari si armonizzano, l’una accoglie l’altra, le fa “posto”, per così dire: anche questa è minorazione. Io stessa, mentre ti parlo, minoro me per accrescere te, ma se la mia minorazione è congiunta con veracità, opera sublime riuscita…”
Stava ancora finendo di parlare quando, all’improvviso, apparvero le tre Dee, sorelle della Temperanza: Prudenza, Giustizia e Fortezza.
Prudenza aveva l’aspetto di un Eremita, con la lanterna in mano, il bastone e il fido serpentello accanto.
Giustizia giocava come al solito con la bilancia.
Fortezza teneva il docile leone al guinzaglio.
“Beh, che cosa siete venute a fare tutte quante qui?” Si preoccupò Temperanza. “Nessuno vi ha chiamato, né c’è necessità del vostro intervento; io sto lavorando, non mi sono fermata un attimo…”
“Lo sappiamo, lo sappiamo” rispose Giustizia per tutte e tre, “siamo solo venute a conoscere personalmente quel tuo raccontastorie, quello per cui cinque anni fa abbiamo rischiato la perdita del nostro lavoro e l’inadempienza dei nostri doveri… ehi, ma è questo qui ?!!.. Ma questo già lo conosciamo! E’ un insopportabile ficcanaso che ogni tanto ci costringe a minorarci per cedergli un po’ della nostra Prudenza, Fortezza e Giustizia…”
Le tre sorelle complottarono un attimo tra di loro e poi Giustizia riprese: “Visto che lui è qui e dato che noi siamo qui pure, abbiamo deciso di…”
“Di minorarci totalmente per lui” terminò Prudenza.
“Io gli donerò tutta la mia prudenza e lo poterò di ogni temerarietà!”
“Io gli darò la mia bilancia e lo poterò di ogni disequilibrio” disse Giustizia. “Io lo farò esercitare col mio leone e lo poterò di ogni debolezza” disse Fortezza.
“Allora anch’io lo tempererò nelle sue energie e lo poterò di ogni eccesso e difetto” concluse Temperanza.
Quando il raccontastorie si vide accerchiato dalle quattro sorelle, ci pensò su un attimo di secondo: se tutte e quattro le Virtù Cardinali si fossero minorate per lui, sarebbe diventato talmente perfetto che… avrebbe taciuto per sempre e non avrebbe certamente più raccontato le sue storie ai suoi lettori. Così… saltò subito fuori dalla carta e… si rimise a tavolino a studiare il koan dell’I King.
Voleva ancora raccontare la storia della “Minorazione” magari “minorandosi” un pochino lui…

 

 

N.42  L’Accrescimento

 

Ghimel si girava e rigirava nel letto: era in dormiveglia, ma un dormiveglia strano, cosciente, vivo, alla ricerca di quella certa posizione, quel certo modo di respirare, quella certa concentrazione, sperimentata già altre volte, che gli aveva permesso di vivere quel continuo spazio-temporale “diverso”.
In quell’alba di ottobre Ghimel aveva già violato il punto critico almeno sette volte e ora si trovava in “quello stato”. Ma che cosa aveva di particolare “quello stato”? Niente e tutto: era “un altro mondo”; e poi lì Ghimel era sempre in “Missione”. Che vuol dire “essere in Missione”? Vuol dire essere a “Scuola”, cioè ad imparare (ricevere) oppure essere a “Servizio” cioè ad operare (dare); talvolta le due cose si mescolano e diventano tutt’una.
In realtà quello stato è di per sé indescrivibile, bloccarlo in quattro parolette è assolutamente inadeguato alla sua realtà… tutta via se proprio si vuole crocifiggerlo su un foglio di carta bianco ecco, quello che rendere meglio l’idea del fatto è questo: quella mattina Ghimel si ritrovava ogni volta dopo il passaggio critico su una “astronave” insieme a tanti altri “studenti” provenienti dai più disparati angoli dell’universo;  tutti assistevano ad una lezione di universalità; l’insegnamento veniva impartito attraverso immagini proiettate su uno schermo gigante e riguardava la storia, il pensiero e la civiltà di pianeti dei vari sistemi solari; le visioni erano immense, reali e incredibilmente onnicomprensive di ogni particolare inerente all’argomento trattato; era come se lo spazio-tempo venisse sondato con un piccolo raggio ispettivo di un potere incredibile: ogni studente riceveva attraverso di quello l’istruzione che gli era necessaria, ognuno nel suo proprio  linguaggio e nei limiti delle sue capacità.
Ghimel apprezzava moltissimo quella “Scuola” si sentiva ricolmo di gratitudine e felicità… avvertiva la sua piccolezza ampliarsi a dismisura e abbracciare i confini senza limite del Tutto…
Ma perché, si chiedeva, saltava continuamente da quello stato di beatitudine e perfezione al normale stato di dormiveglia nella sua stanza?
Perché l’esperienza non si stabilizzava come le altre volte?
Ghimel ritornava con la mente ai suoi pensieri della sera precedente, al suo Koan del mese… quale era il suo problema? Quale l’archetipo da investigare e “sciogliere” in sé?
Ecco, ora ricordava: l’esagramma dell’I King N. 42: l’Accrescimento.
Aveva appena ricordato, che di nuovo ci fu il “passaggio”: era l’ottavo. Ghimel lo esaminò attimo per attimo in tutti i particolari: mentre “passava” egli perdeva i suoi piccoli confini e in quel momento moriva un po’ a se stesso ma in fondo, proprio in fondo, spuntava sempre un piccolo senso di sgomento, una sottile angoscia che gli faceva chiedere: “Potrò poi tornare alla realtà quotidiana, al mondo del piano fisico dove ho il mio corpo i miei affetti e tutto il resto?”
Subito dopo, appena “passato”, l’esperienza era di tale beatitudine intensa, tale grandiosità irripetibile da lasciarlo senza fiato: spazi, colori, visioni, suoni, sensazioni, sentimenti e pensieri tutto accresciuto in modo tale da essere quasi inconcepibile per il suo piccolo cervello e per le sue modeste facoltà intuitive; una immagine però tra tante gli si stagliò nella memoria: dagli spazi interstellari emergeva gigantesca la figura di un Uomo, un Dio di forza e di potere che si ergeva splendido su una Pietra Cubica ed emanava la Sua Radiazione per ogni dove…
Ghimel intanto si chiedeva: “Saprò con-prendere Ciò in me, saprò poi ridarlo nella sua interezza o Lo perderò o mi perderò o…
“Ma sì” aveva udito la Voce “te l’ho fatto vivere otto volte, lo rivivrai ancora quattro, finché lo ricorderai e “saprai”. Solo accrescendo te puoi accrescere gli altri”.
La voce era quella di Raffaele, l’Arcangelo di Hod, l’ottava Sephirah, Ghimel l’aveva riconosciuta.
Poi conobbe il “passaggio” ancora quattro volte. Senza più sgomento o angoscia, conobbe l’Accrescimento.
E la voce dell’ Arcangelo continuò a riecheggiare nella sua mente e nel suo cuore fino a che non prese la penna in mano e cominciò a scrivere:
“Ghimel si girava e rigirava nel letto…”

 

 

N.43  Lo Straripamento

 

Pioveva continuamente già da tre giorni: a tratti cadeva giù una pioggerella fina fina, altre volte invece era acqua a rovesci, accompagnata da lampi e tuoni. Pareva che il cielo da tre giorni avesse deciso di vuotare le sue riserve liquide tutte insieme.
Lì, nella sua casetta di campagna, Alef, il naso incollato al vetro della finestra, guardava con occhio preoccupato l’acqua  nel canale di scolo di fronte al giardino. “Strariperà”, si disse, “e inonderà tuta la strada e il terreno circostante… ma non è “Lo Straripamento” il mio Koan del mese?”
“Certo, l’acqua sale ed io non so ancora camminare sulle acque” pensava tristemente.
Poi udì il vento fischiare tra gli alberi, scuoterli e strapazzarli e ancora rifletté: “Il vento urla e violenta gli alberi e le piante del mio giardino ed io non ho ancora imparato a governare l’aria…”
Quindi, volgendo le spalle alla finestra, Alef si diresse verso il caminetto, attizzò il fuoco che sonnecchiava sotto le braci, poi si sedette in poltrona e cullato dallo sgocciolio dell’acqua  e dallo stormir del vento si addormentò e sognò.…Ora si trovava sulla riva di un lago, il solito lago di montagna che aveva fatto già tante altre volte da sfondo alle sue avventure oniriche, ed aveva in mano quattro carte: l’asso di denari, l’asso di coppe, l’asso di spade e l’asso di bastoni.
Il lago però non era calmo, sereno, limpido e azzurro come le altre volte, ma piuttosto gonfio, grigio e tumultuoso come un fiume in piena.
Alef lo guardò attentamente e notò che anche lì in sogno (sapeva di sognare, dunque) l’acqua saliva piano piano e, salendo, copriva sempre più superficie di terreno intorno.
Alef arretrò di qualche passo e il lago invase il prato dove lui aveva poggiato i piedi pochi momenti prima.
Ora il procedere diventava un salire, perché il lago era proprio incastonato tra i monti come una pietra preziosa liquida…
Alef si inerpicò sull’altura più vicina e si avvide che l’acqua ora cresceva sempre più in fretta. Cominciò ad aver paura.
Aveva sempre le quattro carte in mano e non sapeva come usarle.
Il lago ormai aveva straripato ben oltre quello che doveva essere il suo normale bacino e stava riempiendo la vallata… Alef si arrampicava sulla montagna “inseguito” dall’acqua.
Che cosa fare? Eppure ricordava: prima di addormentarsi era nella sua casetta di campagna, al caldo, dinanzi al caminetto e stava solo riflettendo su “Lo Straripamento”, esagramma dell’I King da cui doveva “imparare” qualche cosa (ma che cosa?) Rievocò la sentenza del Vecchio: “Decisi bisogna rendere nota la cosa presso la Corte del Re…Pericolo. Propizio è imprendere qualche cosa…”
…Adesso poi si sentiva anche tanto stanco, non avrebbe potuto continuare ancora per molto la sua fuga dall’acqua… c’era proprio il rischio di venire sommerso! “Bisogna rendere nota la cosa alla Corte del Re…”
Così Alef si concentrò sul Re: “Sì” pensò.
Allora vide una corda (un serpente di luce) che gli fluttuava dinanzi agli occhi; tenendo le quattro carte con la mano destra si afferrò alla corda saldamente con la sinistra…appena in tempo! L’acqua gli stava già lambendo i piedi. Subito si sentì tirare su… gli parve di volare.
Guardò meglio la “corda”: proveniva direttamente dal cielo e non era più una corda, bensì una scala, con gradini di luce ed angeli che scendevano e salivano ai lati di essa. Pensò: “Ma questa sembra la scala di Giacobbe. Ma questa è proprio la scala di Giacobbe.!!”
Intanto il lago era come evaporato ed Alef camminava sulle nuvole: nuvole di tutti i colori che gli facevano da pavimento, o meglio, da Sentiero. E ora che fare? Doveva salire? Avrebbe osato salire “Quella” scala? E gli angeli non glielo avrebbero impedito?
Infatti quattro di essi, i più splendenti, si erano schierati sui primi quattro gradini. Quello del primo gradino guardò Alef direttamente negli occhi. Lo sguardo era impenetrabile e il volto molto severo, aveva in mano un grande disco d’oro.
Alef allora mostrò la prima delle quattro carte che aveva in mano ma l’angelo non si mosse. Alef allora “bruciò” quella carta che era l’asso di denari: l’angelo sorrise e si pose al lato sinistro della scala. Anche l’angelo del secondo gradino, che aveva in mano una coppa d’argento, fissò severamente Alef. Alef mostrò e subito “bruciò” la seconda carta che aveva in mano, l’asso di coppe.
Il secondo angelo sorrise e si pose al lato destro della scala.
L’angelo del terzo gradino che aveva in mano la spada dopo che Alef ebbe bruciato l’asso di spade, si pose anche lui sul lato sinistro della scala e così pure l’angelo del quarto gradino, che aveva in mano uno scettro d’oro, dopo che Alef ebbe bruciato l’asso di bastoni si accostò al lato destro della scala…
Le ceneri delle quattro carte intanto volavano nell’aria e si disperdevano tra le nuvole. Alef avrebbe potuto finalmente salire sulla scala di Giacobbe ma… … Ma in una casa di campagna, in una stanza con il caminetto acceso un ciocco di legno si mosse dalla sua posizione e cadde con un rumore secco sul pavimento…
E fu così che anche quella volta Alef si svegliò!

 

 

N.44  Il Farsi Incontro

 

Vau era un musicista. Amava la musica in tutte le sue espressioni e, dotato di particolare sensibilità, riusciva a suonare ogni strumento e a comporre in ogni stile di ogni epoca… spesso suonava il flauto che portava sempre con sé e che si adattava particolarmente alla sua spiritualità e alla sua esigenza di armonia.
Essendo molto giovane, studiava ancora composizione e il suo Maestro, un vecchio saggio, grande direttore d’orchestra, gli aveva quel mese assegnato un tema: “Incontro nel bosco” da comporre nello stile che più avesse preferito, ma doveva essere: bello, vero e buono.
Vau, per entrare meglio nel clima del suo lavoro, aveva iniziato a compiere lunghe passeggiate nei boschi vicini; alla mattina partiva prestissimo e alla sera tornava al tramonto del sole stanco e affamato.
Erano già cinque giorni che si dedicava a questa passeggiate: non aveva incontrato nessuno e non aveva avuto alcuna ispirazione particolare per il tema che gli era stato ordinato.
Quella mattina, all’alba del sesto giorno, Vau era stato lì lì per non andar fuori;  il tempo pareva incerto, minacciava un temporale e un temporale nel bosco non è l’occasione migliore per incontrare qualcuno.
Tuttavia una forza interna lo aveva spinto ad uscire e così Vau si era incamminato. Il temporale non c’era stato e verso mezzogiorno Vau era giunto al limitare di una pineta fitta fitta che non aveva mai esplorato. Il sottobosco era stupendo: fiori e funghi dappertutto e un profumo da non credersi…eh, sì, poteva ancora piovere, ma Vau pensò che alla fine sarebbe stata quella l’esperienza nuova che avrebbe potuto ispirarlo: L’incontro con la natura in condizioni particolari… così si decise ad entrare nella boscaglia.
Lecci, allori, faggi, mimose e pini, pini dovunque: anche gli arbusti erano talmente cresciuti da diventare alberi a sei, sette fusti ravvicinati… ad un tratto mentre Vau percorreva un sentiero tutto aghi di pino e dicondra, ad una apparente curva del sentiero, si trovò dinanzi una fanciulla. Entrambi si guardarono a lungo in silenzio. Vau non aveva parole tanto era bella e inaspettata la visione: capelli lunghissimi biondo-ramati, una figuretta deliziosa avvolta da un abito sontuoso e semplice insieme da cacciatrice, con in mano un arco da competizione e a fianco un cane da guardia stupendo.
Fu lei la prima a parlare: “Che ci fai qui in questa pineta? Non lo sai che questa zona del parco è riservata? E’ di mio padre e io me ne servo per esercitarmi al tiro coll’arco. Stavo proprio per tirare dalla tua parte”.
Vau avrebbe voluto giustificarsi  dicendo che non aveva letto alcun cartello di divieto, che non aveva notato alcuna recinzione…come avrebbe potuto sapere che quello era un bosco privato? Ma il modo imperioso con cui la ragazza teneva a freno il grosso cane lo fecero riflettere un attimo prima di parlare.
…Se questo era l’incontro che aspettava…beh, bisognava essere molto prudenti ed abili per ricavare da questa esperienza quelle impressioni buone, belle e istruttive da mettere in musica che potessero soddisfare il suo esigente Maestro e che non  avessero niente a che vedere con un morso nel polpaccio o peggio.
“Scusa se ti ho disturbato” le rispose con tono pacato ma deciso, “non era assolutamente nelle mie intenzioni. Stavo solo cercando il luogo giusto per esercitarmi col mio flauto. Sai, è un flauto magico e suona sempre la musica più adatta al momento… mi è stato regalato da un Grande Maestro…vuoi ascoltarlo?” E intanto aveva estratto dalla tasca sinistra del giubbotto un flauto semplicissimo e già accennava a trarne alcune note…
“Per la musica qui bastano gli uccelli”, lo prevenne la ragazza, “piuttosto cerca di sparire in fretta, altrimenti ordinerò al mio cane di azzannarti”. Vau stava per riporre il flauto e andarsene quando la ragazza, ripensandoci, seguitò con tono di sufficienza: “…Però, senti, visto che ormai sei qui, possiamo fare una partita coll’arco. Se vinco io, te ne vai e mi lasci il flauto magico; se vinci tu puoi rimanere e suonarlo, e poi accompagnarmi fino a casa.”
Vau era un esperto tiratore di arco. Il suo Maestro, lo stesso che gli insegnava composizione musicale, l’aveva fatto esercitare per anni; sosteneva che solo un abile tiratore di arco poteva centrare il bersaglio dell’Io nella musica e in qualunque altra arte… era un Maestro Zen, ovviamente!
Vau capì che quello era un momento importante nella sua vita: se avesse voluto, avrebbe vinto la partita con l’arco; poi, composta la musica che desiderava, l’avrebbe suonata col flauto e, facendo innamorare di sé la ragazza, l’avrebbe condotta alla casa del padre, e forse sposata… ma non era quella la cosa giusta da fare, non era quella la fanciulla che il suo Maestro avrebbe approvato come “donna”…
Allora, che cosa decidere?
Lasciare il flauto e andarsene significava dimostrare di non saper usare l’arco.
Accettò la sfida; il resto sarebbe venuto da sé.
La ragazza pose due bersagli uguali l’uno accanto all’altro a dieci metri di distanza; prese la mira, tirò: centro perfetto.
Vau prese anche lui la mira e anche lui fece centro.
Insieme misero altri due bersagli, questa volta a venti metri; la ragazza tirò di nuovo e fu ancora centro. E Vau ottenne lo stesso risultato.
Posero ancora altri due bersagli, questa volta a trenta metri; la ragazza fece il terzo centro. Era esultante. Vau tirò e anche lui centrò.
L’arco era tarato per i 30 metri. “Siamo pari”, disse allora la ragazza indispettita, “vattene col tuo flauto, non voglio più vederti”.
“No, mia cara, mi dispiace, non sarà così.” Rispose Vau.
Appuntò ancora due nuovi bersagli, e questa volta a 33 metri. Mirò e fece il quarto centro: perfetto. La ragazza volle provare anche lei… ma questa volta la sua freccia deviò e non colpì nemmeno il bersaglio…ed essa andò su tutte le furie. Vau chiamò a sé il grosso cane e gli mise in bocca il suo flauto. “Te lo lascio per ricordo; il flauto è magico solo se sai farne un uso magico; come l’arco; come tutte le cose esistenti nell’universo. Va a casa, ora. E chiedi a tuo Padre come si fa a diventare davvero “donna” perché tu ancora non lo sei. Tornerò quando sarai divenuta comprensiva, forte e luminosa. Arrivederci”.
Vau le voltò le spalle e riprese il sentiero tutto aghi di pino e dicondra: tornò dalla stessa parte da cui era venuto.
Appena giunto a casa si mise al pianoforte e compose subito la musica che il suo Maestro gli aveva richiesto: era vera, buona e bella, forse solo un po’ triste.

 

 

N.45  La Raccolta

 

Nell’atrio del monastero Zen il campanello risuonò con serena allegria: mancava qualche minuto alle 5 di una qualunque domenica pomeriggio di fine inverno. Il monaco portinaio guardò attraverso il vetro della finestra e riconobbe due dei monaci che frequentavano abitualmente quel centro Zen: aprì il portone. Il campanello suonò ancora varie volte; i monaci a piccoli gruppi di due o tre, arrivavano chiacchierando, era bello ritrovarsi in famiglia dopo quattordici giorni di lontananza. Alle 5 c’erano tutti.
Jiz e Maz, detti i “tantrini”; Piz e Gioz, i “macrobiotici”; Fraz e Liz, ovvero vengo sì, vengo no; Anz, la monachella più piccola e più vispa; Roz, chiamata anche Psiche; Siz, a sua insaputa detto “Primadonna”; Auz, il sincretico e poi ecco Naz, il poeta e Marcz e Clauz ancora postulanti… infine Moz e Faz. A questi due ultimi monaci piaceva giocare agli insegnanti e con quel gioco negli ultimi dieci anni avevano imparato che… Ma questo ce lo diranno alla fine del racconto!
I quindici monaci si disposero o meglio si “raccolsero” intorno alla tavola delle riunioni e iniziarono i lavori.
Concentrazione, lettura del Testo Sacro, commenti, domande, risposte, altra lettura del Testo Sacro, infine meditazione; questo era il programma usuale. La concentrazione e la lettura (45° esagramma dell’I King) si svolsero senza interruzioni in modo armonioso e perfetto come al solito. Poi Fraz lesse il suo commento a quel particolare brano del Testo Sacro.
Lo lesse con candore, come al solito.(La sua caratteristica principale infatti era l’innocenza; a sentir lui pareva che solo da pochi giorni avesse abbandonato l’infanzia e fosse entrato nell’adolescenza e da certi suoi scritti non se ne poteva certo dubitare).
Poi Liz, sua compagna, porse al gruppo il suo pensierino: bello e sentito, espresso col cuore: cuore di mamma. Quindi toccò ad Anz: essa espose il suo tema: semplice, lineare, comprensibile, qualche volta illogico. Venne il turno di Marcz: un lavoro stile giornalista, con la curiosità del neofita e i primi indizi di lucidatura di Pietra. Poi fu la volta di Clauz, sua compagna: il suo compito mostrò il lento ma certo “seguire”.
Gira, gira, ecco il turno di Jiz, lo yogi: il suo Lucius, il modesto, si era dato da fare come al solito:  si era raccontato la sua favola e ora se la godeva tutta. Maz, la yogina, anche lei offrì ai partecipanti il proprio “vissuto”: delizioso; doveva solo stare attenta a non prendersi così tanto sul serio.
Siz col suo fare abituale di quello che vuole passare “assolutamente inosservato” sciorinò un bel predicozzo valido sia per sé che per gli altri. Subito dopo Roz con impetuosa dolcezza raccontò l’ennesima avventura-disavventura di Psiche; appresso a lei Gioz donò a tutti il suo quadretto a croce, simbolo dell’ultima tappa del viaggio collettivo dei monaci. Piz, il compagno, mostrò con molta serietà una “particolare” storia muta con grafica espressiva e immediata, da… raccolta!
Poi venne il turno di Naz: da quel monaco lì non si sapeva mai cosa aspettarsi; poteva con la stessa disinvoltura offrire un piccolo capolavoro oppure un guazzabuglio quasi incomprensibile…bisognava essere fortunati; quella volta i monaci lo furono: una raccolta non raccolta incredibilmente dolce e soave…(GratzNaz!).
L’ultimo a leggere il suo tema fu Auz: quell’esagramma per lui era stato la “Mecca”. “Raccogliere era il suo lavoro preferito… poi mescolava energicamente e…sfornava!
Il giro del tavolo era con lui finito. Moz e Faz si guardarono compiaciuti: era stata davvero una bella raccolta!
Diedero quindi inizio alle domande e alle risposte: gli argomenti erano vari, sempre stimolanti, sempre divertenti: qualcuno voleva precisazioni su quanto era stato affermato nei lavori letti…spesso volavano battute e sorrisetti… la ricerca collettiva è gradevole… Faz guardò l’orologio: si erano fatte le 7. Si sarebbe dovuto leggere il nuovo esagramma con i relativi commenti per preparare la successiva riunione e passare poi alla meditazione…
Invece quella sera improvvisamente Faz si alzò, andò alla finestra e subito la spalancò e chiamò a sé con un fischio impercettibile una Cicogna, Zen naturalmente, che volava nei paraggi.
La Cicogna venne subito materializzando alle sue spalle una diligenza aerea come un piccolo vagone-disco-volante.
Faz, in piedi accanto alla finestra chiamò ad uno ad uno i monaci e chiese loro se erano disposti ad entrare nella diligenza-disco-volante per andare a vedere il Grand’Uomo. Risposero tutti di sì.
Faz li “raccolse” tutti nello strano velivolo: Auz, Piz e Gioz; Roz, Siz, Maz e Jiz; Clauz e Marcz; Anz, Liz e Fraz: formavano una dozzina perfetta. Anche Naz stava per avviarsi con loro, ma Faz lo fermò con un gesto: “No, tu no. Non con loro, sono già 12”.
Intanto Moz si era avvicinato e aveva chiuso la porta della diligenza-disco-volante e la Cicogna si era messa a cassetta. Faz fece un breve cenno col capo e la Cicogna mise in moto e …via!
“Arrivederci, arrivederci a presto!”
Moz, Naz e Faz salutarono con la mano dalla finestra richiusa.
Faz disse: “Abbiamo imparato che cosa è la Raccolta: vanno a vedere il Grand’Uomo. Abbiamo offerto il nostro sacrificio.
Ora rinnoviamo le armi per fronteggiare “l’impreveduto”.
Poi sorrise e s’inchinò. La Raccolta  era finita.

 

 

N.46   L’Ascendere

 

C’era una volta un principe di nome Ghimel, aveva i capelli biondi lunghi, gli occhi azzurri e bellissimi come tutti i principi delle favole. Il suo abbigliamento era quello particolare dei principi: pantaloni stretti di velluto, corpetto azzurro con diadema sul cuore e cappello piumato con un meraviglioso smeraldo sulla fronte.
Cavalcava un cavallo bianco e al fianco aveva la spada dall’impugnatura d’oro. Viaggiava già da molti mesi, perché era un principe alla ricerca del Regno. Era stato allevato da un Eremita che lo aveva istruito nelle discipline marziali e che, al compimento del 21° anno gli aveva consegnato l’abito di principe, la spada e il cavallo dicendogli: “Io ho adempiuto all’incarico datomi dal Re tuo Padre di educarti; ora puoi trovare da te il Sentiero che ti condurrà alla meta. Sappi che dovrai traversare vasti territori e fiumi e scalare montagne: al termine del tuo viaggio, se saprai seguire sempre la giusta direzione, sarai ammesso al cospetto della Grande Imperatrice; sarà Lei a farti Re: allora ci ritroveremo insieme”. Detto questo l’Eremita si era dissolto nell’aria e Ghimel era rimasto solo col suo cavallo bianco e un grande desiderio di viaggiare, conoscere e diventare Re. Andava nel suo pellegrinaggio, seguendo i consigli dell’Eremita, dalla mattina all’alba fino al tramonto, sempre verso oriente; dormiva all’aperto; durante il sonno il suo abito riprendeva lo splendore offuscato dalle intemperie e dalla polvere e le provviste del tascapane consumate si rinnovavano.
Era trascorso così tutto l’inverno, finalmente una mattina di primavera, dopo aver percorso una vasta vallata e aver attraversato un fiume impetuoso, Ghimel si ritrovò ai piedi di una montagna altissima; sulla cima si intravedevano le torri di un Castello fortificato.
Il principe errante cercò il sentiero che lo avrebbe condotto all’ingresso del Castello che intuiva essere la dimora dell’Imperatrice, ma dopo aver girato tutt'intorno alla montagna, si avvide che un sentiero per salire non c’era, solo roccia. Rimase perplesso. Scese da cavallo e si sedette a riflettere. Si fermò tre giorni ai piedi della montagna, in silenzio e a digiuno, perché nel frattempo le sue provviste erano terminate e non si erano rinnovate come al solito. Al terzo giorno anche il cavallo era scomparso.
Ghimel allora, molto preoccupato evocò il suo maestro, l’Eremita. Questi non gli apparve, ma egli ne poté udire la voce: “Non pensare di poter ascendere il Sacro Monte senza prima essere disceso agli inferi. Non ti rattristare per la scomparsa del cavallo, esso non ti occorre più, per questo è svanito e ugualmente non impensierirti per il digiuno, esso rende più facile il cammino che devi intraprendere. Trova l’ingresso alla grotta che porta all’interno della tua terra, visitalo e poi sarai in grado di salire al Castello dell’Imperatrice. La spada, il diadema e lo smeraldo saranno la tua difesa. Abbi coraggio e persevera fino alla fine, altrimenti sarai perduto”.
Ghimel ispezionò per tutto il giorno ancora la base della montagna e finalmente all’imbrunire trovò la grotta; sulla parte alta dell’entrata era incisa questa frase: “Se vuoi conoscere la tua accidia, entra”.
Si fece coraggio ed entrò. Mentre “passava” l’ingresso avvertì come la sensazione di un distacco all’interno di sé; infatti voltandosi vide il suo corpo fisico adagiato sull’erba, fuori della grotta. “Allora è come se sognassi.” si disse. Lì la roccia era intagliata a gradini; ne scese sette e si trovò in una stanza brulla, giallastra, deserta: una donna grassa e flaccida sedeva immobile, ostruendo l’altra porta che avrebbe dovuto varcare per proseguire il cammino. Ghimel non sapeva come scostarla: sguainò la spada: “Non vorrai uccidermi, spero!” Ansimò la donna. “Devo passare” replicò Ghimel. Il tono della sua voce era inflessibile; egli le si accostava sempre di più: quando la spada sfiorò il lembo della sua veste, essa balzò di lato e così facendo scomparve.
Sulla porta ora libera c’era scritto: “Se vuoi conoscere la tua lussuria, entra”. Intanto Ghimel sentiva che una parte di sé ancora più sottile si proiettava fuori, ai piedi della Montagna e vedeva questo Ghimel salire ora su di essa, percorrendo come un primo girone che lo avvicinava alla cima… Il Ghimel che stava nella grotta, varcata la seconda porta, si trovò dinanzi altri sette gradini; discese anche quelli ed ecco: una stanza rossa, tutta tappezzata di velluti e sete con un’alcova ed una donna florida e discinta. Di nuovo Ghimel impugnò la spada, ma stavolta la donna si mise a ridere: “Non mi puoi scacciare con la spada, non mi fa paura, ma posala lì e vieni accanto a me… ti farò felice…”
Ghimel non l’ascoltò neppure e cominciò a colpire le tende e i velluti dell’alcova… anche stavolta la donna scomparve e Ghimel la vide proprio diventare “sentiero”: il secondo girone della Montagna Sacra, e vide se stesso che lo percorreva nella notte stellata. Intanto nella grotta, svanita la lussuria, era apparsa la terza porta con la scritta: “Se vuoi conoscere la tua avarizia, entra”.
Ghimel scese altri sette gradini; al termine di questi, non trovò una donna, bensì un vecchio rattrappito che contava denaro seduto su di un sacco di monete d’oro: “Resta con me”, disse il vecchio, “ho molti altri sacchi. Ricolmi d’oro, con essi potrai comprare tutto ciò che vorrai!”
“Non so che farmene delle tue ricchezze” rispose Ghimel e toccò anche il vecchio con la punta della spada: il vecchio e il suo sacco scomparvero in una nuvola di polvere.
Ghimel si vide sul Monte, a percorrere il terzo girone, il sentiero tracciato con l’energia del vecchio e del suo oro. Ora egli non aveva più la spada ed era davanti la quarta porta, su di essa era scritto: “Se vuoi conoscere la tua invidia, entra”. Ghimel scese altri sette gradini e si ritrovò dentro una stanza verde, di un verde viscido, freddo, ostile. Lì’ c’era un ragazzo, brutto, deforme, con lo sguardo bieco. “Non ti lascerò passare” disse a Ghimel, “Tanto più che non hai nemmeno la spada!” Il principe gli mostrò il diadema che portava sul cuore  e quell’essere abietto scomparve immediatamente.
Ghimel vide il se stesso fuori della grotta percorrere il quarto girone che scalava la Montagna Sacra; poi si trovò alla quinta porta su cui era scritto: “Se vuoi conoscere la tua gola, entra”. Ancora una rampa di sette gradini e una stanza color fango: lì non c’erano personaggi, solo un’infinità di leccornie, di piatti succulenti, di odori invitanti e il povero Ghimel era sempre a digiuno…mostrò a tutta quella dovizia il suo diadema… e via! Tutto sparì in un batter d’occhio. Ghimel si vide all’esterno ascendere un altro girone sulla Montagna, il quinto. Nello stesso tempo si trovò dinanzi alla sesta porta, su di essa era scritto: “Se vuoi conoscere la tua ira, entra.”
Scese la sesta rampa di sette gradini incavati nella roccia e si trovò in una stanza dai colori marrone e nero e rosso mescolati insieme… lì un toro infuriato scalpitava con le corna tutte protese verso Ghimel… ma il diadema che egli aveva sul petto funzionò ancora una volta e il toro infuriato svanì come tutti gli altri vizi che l’avevano preceduto.
Là sulla Montagna il Ghimel della visione sottile aveva percorso anche il sesto girone e intravedeva ormai la cima, mentre il Ghimel della grotta si trovava di fronte alla settima porta con la scritta: “Se vuoi conoscere la tua superbia, entra”. Ghimel varcò l’ultima porta, scese l’ultima rampa di sette gradini ed entrò nell’ultima stanza: era vuota, senza altre uscite e tutta tappezzata, pareti, pavimento e soffitto, di specchi. Ghimel poteva vedere se stresso all’infinito… rimase interdetto. Come uscire dalla stanza della superbia? Quale era il mostro da vincere e da trasformare in sentiero per conquistare l’ultimo girone della Montagna Sacra? Egli girava e girava per la stanza senza trovare via d’uscita. Cercò di rammentare le ultime parole del suo maestro: “La spada, il diadema e lo smeraldo saranno la tua difesa. Abbi coraggio e persevera fino alla fine, altrimenti sarai perduto”. Ecco, la salvezza era nello smeraldo… ma come usarlo? Lo toccò più volte, ma non successe nulla. La stanza rimaneva tale e quale… chi era il nemico da dissolvere? Lì c’era solo lui e tanti specchi…!  Rimase un’eternità a pensare… o meglio a non pensare… Alla fine:…ma sì, ecco! Il nemico era lui stesso, se stesso, il suo ego che doveva essere dissolto e lo specchio glielo aveva detto fin dall’inizio. Si tolse il cappello piumato e indirizzò il raggio magico dello smeraldo su di sé… si sentì “staccare” dentro per la seconda volta, si sentì proprio morire… Ora l’altro Ghimel, quello che si trovava al termine del settimo girone della Montagna Sacra, era finalmente giunto dinanzi all’ingresso del Castello; il portone era spalancato e l’interno tutto illuminato… Ghimel entrò e andando sempre diritto, giunse ai piedi dell’Imperatrice. L’interno di quel salone era come un grande anfiteatro all’aperto…albeggiava. La Sovrana Celeste toccò il principe col suo scettro magico… il corpo di Ghimel si trasformò: divenne di luce splendente; sul suo capo apparve la corona  di Re ed egli cominciò a salire verso il cielo, verso il sole che si vedeva ormai chiaro all’orizzonte… “Questa è la tua Ascensione… ora noi siamo Uno…”
La voce del Maestro risuonava tra le nuvole…
Ghimel non aveva parole per rispondere…solo un’immensa indicibile gratitudine verso tutti e verso il Tutto…

 

 

N.47  L’Assillo

 

Sadé, monaco itinerante, era stato accolto per un periodo di prova in un monastero Zen; egli era un monaco Zen, ovviamente, ma gli altri monaci lo consideravano un po’ strano…si erano accorti, per esempio, che gli piaceva passeggiare in campagna la notte del plenilunio, benché uscire di notte fossa contrario alle regole del monastero; ma quando compariva quella particolare fase della luna (era già accaduto due volte da quando egli soggiornava lì), non c’era modo di trattenerlo, usciva di soppiatto o dalla porta o dalla finestra (le celle dei monaci erano tutte casette isolate nel grande giardino del monastero) e… via, fuori del cancello, nella campagna aperta!
Ora si approssimava di nuovo la notte del plenilunio e questa volta il capo dei monaci, il cui nome era K’unn, decise di sorvegliare personalmente il nuovo venuto per sapere di preciso cosa combinasse e per poi stabilire se ospitarlo ancora o no. K’unn dunque si appostò all’esterno della casetta abitata da Sade e, nascosto dietro un cespuglio, attese gli eventi.  A mezzanotte in punto Sade sgusciò furtivamente dalla porticina, guardò la luna come per assicurarsi che fosse proprio piena e poi si avviò verso il cancello; l’aprì cautamente e si diresse verso il sentiero del bosco che gli si stendeva davanti.
K’unn dietro, a debita distanza per non essere visto. Cammina cammina nel bosco, Sadé giunse nei pressi di un’ampia radura sulla riva di uno stagno, che rispecchiava la luna, naturalmente: una bellissima luna rotonda e malinconica.
K’unn vide di lontano Sade sedersi sulla riva di quello stagno e cominciare a gesticolare come se stesse a discutere con qualcuno… allora si portò più vicino, voleva proprio sentire le parole di quello strano discorso. “…Devi uscire assolutamente” diceva il monaco con voce accorata, “non puoi rimanere lì così nascosto. Ti prego, mostrati. Lo sai che se tu non esci, io non posso proseguire la mia strada…” K’unn poteva udire come un gorgoglio provenire dallo stagno, ma non riusciva a capire nulla di preciso e neppure vedeva nulla.
Questa storia durò circa una decina di minuti poi, come per miracolo, la luna mandò un bagliore particolare, l’acqua dello stagno si prosciugò tutta e sul fondo verdastro e pieno di alghe comparve un enorme mostruoso gambero rosso. Era lui, dunque, l’interlocutore di Sade. “Tutti i mesi la stessa noia” bofonchiava il gambero, “a che ti serve pregarmi di uscire dall’acqua dello stagno se poi, quando sono fuori, non sai superare i due cani e le due torri? Eccoli lì davanti a te, come al solito; fai, agisci, muoviti!!” K’unn che fino a quel momento era rimasto quasi affascinato dallo smisurato gambero, guardò oltre e sbalordì: in men che non si dica erano comparsi dal nulla due grossi cani, uno bianco, uno nero che latravano e ululavano alla luna e, sullo sfondo, dove prima erano solo alberi, ora si stagliavano due torri imponenti e severe…
Sade intanto aveva incominciato a piangere perché evidentemente non sapeva proprio che fare e, mentre piangeva il pianto si tramutava in acqua, quella dello stagno, ricoprendo a poco a poco il gambero rosso…
Allo stesso tempo cani e torri diventavano sempre più evanescenti e scomparivano. Quando il paesaggio fu tornato normale, Sadé riprese il sentiero che portava al monastero con K’unn sempre dietro.
Il mattino dopo K’unn chiamò il monaco Sadé per il quotidiano colloquio che si svolge nei monasteri Zen tra il maestro e i suoi discepoli e lo apostrofò a bruciapelo: “Monaco Sade, che cosa è l’Assillo?”
Sade rispose balbettando: “L’Assillo è… l’Assillo è…” e ricominciò a piangere. K’unn allora lo percosse con la bacchetta sulla spalla sinistra e gli disse severamente: “Monaco buono a nulla! Vai nella tua cella e restaci fino a che non avrai risolto questo Koan! Se riesci a venirne a capo prima del prossimo plenilunio, bene; altrimenti dovrai andartene di qui e, parola mia, non troverai mai più alloggio in nessun monastero Zen; sparisci!” Il povero Sade uscì dalla sala dei colloqui col capo chino e subito andò a rinchiudersi nella sua casetta.
Per 27 giorni a turno gli altri monaci gli portarono da mangiare e ogni volta gli chiedevano se avesse risolto il Koan e la risposta era sempre negativa. Allo scadere del 28° giorno poco prima della mezzanotte K’unn si recò personalmente dal monaco Sadé; spalancò la porta della cella con una pedata e … “Fuori di qui, buffone inconcludente; possibile che ancora non sai cosa è l’Assillo? In che modo debbo assillarti per fartelo conoscere? Vattene via e non farti vedere mai più!” Sadé aveva pianto tutte le sua lacrime ed era come uno stagno prosciugato; prese la sua ciotola e si avviò verso il cancello che era completamente aperto, verso il sentiero del bosco… La luna splendeva piena nel cielo come la volta precedente; Sadé giunse alla stessa radura, allo stesso stagno che però era tutto secco, senza acqua. Il grosso Gambero rosso l’aspettava: “Sono convinto che questo volta ce la farai” lo incoraggiò col suo vocione grave, “vedi i due cani e le torri? Ecco, la luna ti concede ancora la possibilità di superare l’esame e stavolta “devi” farcela perché sai che non puoi più tornare indietro”, A queste parole Sade finalmente si svegliò.
“Se non posso tornare indietro vuol dire che “debbo” andare avanti” si disse e camminando leggero sulle alghe dello stagno tra le chele del gambero, giunse davanti ai due cani:
“Qui, da bravi, buoni e a cuccia” disse con tono deciso; poi afferrò con la destra il collare del grosso cane bianco e con la sinistra il collare del grosso cane nero e, servendosi dei due bestioni a mò di protezione, oltrepassò le due torri e, lasciati i cani, seguitò diritto la sua strada.
Aveva appena percorso poche decine di metri, quando, nello splendore lunare gli apparve K’unn il Maestro.
“Vedo che hai finalmente imparato che cosa è l’Assillo. Fanne tesoro perché diverrai capo di molti monaci e dovrai trasmettere loro la tua illuminazione. Buona fortuna e addio”. Ciò detto, scomparve.
Sadé proruppe allora in una gran risata e subito riprese il cammino.

 

 

N.48   Il Pozzo

 

I due ragazzi Hùo e Hìa erano in viaggio. Da quando? Non lo sapevano. Per dove? Non sapevano neanche quello, solo… ogni tanto avevano qualche intuizione e ne parlavano: “Sì, forse dobbiamo tornare al Continente Perduto per ritrovare la felicità che era nostra all’Inizio…” Diceva Hìa.  “Ma dove dobbiamo cercare il Continente Perduto e come possiamo ricordare quel luogo e ritrovare la felicità di Quel Tempo se quando cerchiamo di pensarci veniamo avvolti da un’angoscia sottile, vaga e imprecisa che ci lascia sperduti e insoddisfatti?” Replicava Hùo e ne parlavano e discutevano tra loro e così, insieme, continuavano a viaggiare. Le tappe di quel viaggio strano e inesplicabile si realizzavano a volte per aereo, a volte per nave, a volte in automobile, a volte a piedi: spesso in compagnia di altre persone, raramente rimanevano soli loro due. I voli in aereo erano entusiasmanti, purché non ci fossero vuoti d’aria e purché il pilota (sconosciuto ai passeggeri) non avesse i cinque minuti di nervosismo!
I viaggi per nave erano festosi e pieni di avventura, ma quando il mare si inquietava, allora bisognava fare i conti con lo stomaco proprio e con quello degli altri. Le escursioni in auto erano le più tranquille, tuttavia certe volte in una vettura da quattro si doveva entrare in sei e si stava pigiati come sardine… Infine c’erano i viaggi a piedi; questi ultimi erano i meno costrittivi, in quanto lasciavano più libertà individuale, spesso si trattava di gite per boschi e valli o montagne durante le quali però capitava di perdere di vista il gruppo, rischiando così di smarrire la strada  che riportava all’Albergo messo a disposizione dall’Organizzazione. Perché c’era un’Organizzazione.
Dei viaggi a piedi facevano parte anche i percorsi sotterranei, con escursioni in grotte, ma lì spesso mancava l’aria e sembrava di stare in prigione e senza sapere fino a quando.
Si potevano rifiutare i viaggi?
Sembrava di no. Quelli che rifiutavano una gita, un’escursione o altro non venivano più rivisti dagli altri e perciò non si sapeva bene che genere di conseguenze pratiche avesse il rifiutarsi di viaggiare.
Hùo e Hìa andavano molto d’accordo, si volevano bene ed erano sempre felici di fermarsi alla sera negli Alberghi dell’Organizzazione.
In questi Alberghi essi si rifocillavano, dormivano, ascoltavano musica e discutevano dei viaggi. Tuttavia…
Pareva che quegli intervalli fossero anche utilizzati dall’Organizzazione per creare particolari situazioni con interferenze delle coppie fra di loro, producendo talvolta gelosie, incomprensioni, problemi e complicazioni… eh sì, perché tutte quello coppie in parte si annoiavano e cercavano un diversivo a quei viaggi quasi forzati…
Le disarmonie e le opposizioni rallentavano o forse addirittura mutavano il programma del viaggio del giorno dopo o dei giorni successivi.
Con gli anni questo era stato scoperto da Hùo e Hìa. Come? Perché essi erano due attenti osservatori.
I due ragazzi avevano anche notato che al momento di addormentarsi nelle camere degli Alberghi si accendevano dei Monitor (e per poterne prendere coscienza bisognava rimanere desti pure nel dormiveglia); questi Monitor video trasmittenti-riceventi proponevano un indovinello o sul viaggio trascorso o sul rapporto di coppia o sulle relazioni con gli altri viaggiatori o su argomenti astratti ma in relazione con se stessi… bisognava essere in grado di rispondere all’indovinello serale; una risposta “giusta” era sinonimo di grande serenità: il sonno scompariva e si poteva visitare l’Albergo a proprio piacere. Tante volte Hùo e Hìa avevano cercato di parlare del Monitor e dell’Indovinello alle altre coppie che viaggiavano con loro ma molto spesso non erano creduti o se lo erano, poi le coppie che cercavano di rimanere deste non ci riuscivano o non riuscivano a risolvere l’indovinello… insomma i due ragazzi pur viaggiando in compagnia erano in realtà soli.
Era un giorno di mezza estate. Hùo e Hìa camminavano da molte ore a piedi, avevano perso di vista gli altri e si trovavano su un sentiero in mezzo ad un bosco. Hùo disse: “Guarda quanto fango qui, attenta a non scivolare!” “Fango?” rispose Hìa “Sì, certo, lo vedo; perché non entriamo nel bosco? Sento profumo di fragole e funghi…e poi abbiamo tempo…”
“Ma no, non abbiamo tempo per niente” replicò Hùo, “non vedi che si fa notte e non sappiamo nemmeno qual è la direzione giusta per arrivare all’Albergo che abbiamo lasciato stamattina… Ah per fortuna ecco un  monaco che ci viene incontro; la domanderemo a lui.”
“Andate sempre diritto” rispose il monaco alla domanda che gli era stata posta, “la strada giusta per l’Albergo è quella sempre diritta”.
I ragazzi ringraziarono e proseguirono; a sera molto tardi giunsero all’Albergo: era piccolissimo, di montagna, con una sola stanza e loro erano gli unici ospiti.
Hùo e Hìa, stanchissimi, non presero alcun cibo, non ce n’era: si coricarono subito. Mentre stavano per addormentarsi sul Monitor comparve la figura di un Albergatore vecchio, tutto bianco, con una lunga barba e un aspetto maestoso; diceva affettuosamente: “Si deve raggiungere quell’Oscurità da cui sorge la vita 

Saper calare il “mezzo” opportunamente
Mai infrangerlo sbadatamente
Poi il Caldo e il Freddo dolcemente temperare
Onde il “Giusto” poi prelevare.”
I due ragazzi capirono che quello era l’indovinello serale; si sedettero sul letto e si consultarono mentre il Monitor rimaneva acceso, pronto per ricevere la risposta. In realtà essi avevano acquisito una tecnica tutta particolare per risolvere i loro indovinelli.
Hìa si interiorizzava e “parlava” dicendo quello che suscitava in lei la frase dell’indovinello. Hùo metteva insieme le due cose e dava la risposta, quasi sempre quella giusta.
Quella sera Hìa chiuse gli occhi e disse: “Chi ha sete venga con Me e beva, chi crede in Me: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. (1)
Hùo si concentrò un attimo e poi disse: “Il Pozzo”.
Allora la stanza si illuminò tutta e la porta della casetta Albergo si spalancò; il sonno, la stanchezza, la fame… tutto sparì in un attimo. I due ragazzi felici uscirono fuori, albeggiava; di fronte a loro un prato verde con un albero di fico e sotto il Pozzo.
Essi si accostarono: s vedevano due corde; con grande cautela, memori delle parole del Vecchio, tirarono su l’Acqua della vita. I liquidi erano due: uno d’oro, uno d’argento. Li mescolarono e li bevvero.
Una trasformazione radicale si operò in loro. Si abbracciarono e si fusero in un solo Essere Meraviglioso.
Un suono incredibilmente forte e dolce si diffuse nell’aria. Il loro viaggio era terminato ed erano tornati a Casa realizzando l’Essenza della lettera Hè.