OTELLO
INTERPRETAZIONE DI NATALE

 

"…Da noi dipende essere così pittosto che cosà. I nostri corpi sono i giardini, e le nostre volontà i giardinieri. Puoi piantarci l'ortica o seminarci l'insalata, metterci l'issopo ed  estirpare il timo, far crescere una sola qualità d'erba o svariate qualità, lasciare sterile il terreno per pigrizia o fecondarlo col lavoro: il potere e l'autorità di correggere risiedono nel nostro volere." (Shakespeare - opere -  Sansoni, pag. 872 , atto I scena III).

 

A pronunciare queste parole è Jago, il perfido di turno. Le rivolge a Roderigo, un gentiluomo veneziano, che si vergogna d'esser innamorato e di non poterci fare niente "Non ho virtù di rimediarci"(id.). "Virtù un fico!",  gli dice Jago, "Da noi dipende…".

Abbiamo cominciato con questa citazione, per inquadrare il personaggio attorno a cui ruota l'intera tragedia. Jago è cattivo per libera scelta. Egli usa tutta la sua volontà e astuzia per far del male, e chi è cosciente di una simile scelta è maligno al massimo grado. Egli è intelligente e non un istintivo: come un ragno velenoso tesse la sua tela fin nei più minuti dettagli, con una precisione e una viscidità estreme. Passo dopo passo, come una "vedova nera",  morde i vari personaggi e li costringe a danzare per lui. Regista a cielo aperto, tesse la sua tela nello spazio e nel tempo: ogni attimo è carico di coseguenze per l'attimo successivo, ogni mossa costringe a precise azioni i suoi burattini.  Che lui dopo  (atto II scena prima) ci venga a raccontare che agirà per pura vendetta nei confronti del moro, reo a suo dire di essergli "saltato nel letto",  ed anche perché  è innamorato di Desdemona o perché non ha ricevuto la promozione, è marginale: la volontà rimane il giardiniere. Confermano la nostra tesi le parole che lo stesso pronuncia poco prima che inizi la scena seconda dello stesso atto: "La malizia non mostra il suo vero sembiante se non quando è in opera".  Jago è non solo un teorico del male, ma anche uno stratega di esso. Vuole farci "assaporare" il gusto del suo veleno nelle azioni che gli permetteranno di dar corpo alla sua idea ben chiara, calunniare Desdemona,  e dopo, allorché ripudiata, possederla.

      Ma Jago è un pretesto del genio di Shakespeare che vuole, non già mostrarci le vie, ma la fine del male. La calunnia, in questo caso, non è un venticello che raggiungerà il suo scopo e amen. Essa darà vita ad un ciclone che spazzerà via il malvagio. L'occhio del ciclone, in questo caso non è cieco, ma ben vedente. Esso, carico di tutta la nostra ira e di tutta la nostra pietà di spettatori, come un basilisco annienta, annulla, polverizza Jago, e con lui (almeno per un po') il male che è in noi. Ci costringe ad incatenare, "per mille anni" simbolici, l'avversario.

Ma Shakespeare, ancora una volta, ci porta a spasso per il teatro della vita attraverso il suo formidabile teatro, dove i personaggi sono talmente carichi di anima che la loro comparsa e scomparsa è marginale rispetto ai "profumi" che di sé lasciano attraverso il linguaggio che li caratterizza. Il grande drammaturgo ci invita per l'ennesima volta ad osservarci come attori, e a vedere nell'osservatore un messaggero del regista. Laddove vi è un "io" si crea un vortice che tocca, muovendosi, tutti gli altri vortici. Come un oceano impazzito che lascia sfogare un numero sterminato di onde mosse dal vento, la Coscienza che siamo, l'Essenza che siamo, l'Oceano che siamo, non aspetta altro che di godersi la pace ed il silenzio che fanno seguito alla cessazione dei venti. Le passioni umane sono venti che fanno alzare la cresta agli infiniti galletti (alle infinite forme dell'Essere), che facendo per qualche attimo chicchirichì, credono di avere creato una individualità che mai potrà esistere al di fuori dell'Uno, unica Unità vera. Il gran genio di Shakespeare non fa che ripetercelo continuamente attraverso gli archetipi teatrali che ha creato una volta per sempre, ma noi incuranti degli insegnamenti continuiamo a "soffiare" sul vasto Oceano, ad usare la nostra volontà per piantare la malerba che si chiama "io". Pessimi giardinieri, continuiamo ad infestare d'erbacce il giardino.  Ma tutto questo accade molto più facilmente se siamo privi di amore, cioè se il nostro cuore e la nostra mente non hanno mai assaporato il collante universale, l'altro nome della Verità: Amore. Jago è privo d'amore nonostante Emilia, sua moglie. L'egoismo fa sì che egli rimanga un'isola in pieno continente. Sempre a Roderigo innamorato, dell'amore dice: "Non si tratta che di un infocamento del sangue e di una sospensione della volontà"  (Atto 1° scena III, pag. 872, 873). Dunque, la volontà, la mente egoica, in un costante impeto di nichilismo, deve rigettare tutto ciò che non è "carne" e senso. Né voce di coscienza, né intuizioni, né alti sentimenti. Jago non potrà mai capire l'amore di Desdemona per Otello: "L'amore di Desdemona per il Moro non può durare" (id.). Che egli incarni il male, non ci sono dubbi, e che di ciò sia consapevole è certo. Basta porre attenzione ai dialoghi cui dà vita, al modo di tessere i suoi discorsi: egli, come il serpente tentatore del Genesi, incanta, affascina, suade, spinge, costringe. Le sue parole, cariche di apostolato negativo, sono infallibili, ipnotiche fino al punto da farti scorgere un serpente laddove c'è solo una corda. Il suo è un nichilismo finalizzato alla tragedia. Quando un cattivo maestro ha eloquenza e doti apostoliche negative può smuovere persino le masse. E' facile perché quando si fa appello alle virtù l'agire non è facile, ma quando lo si fa ai vizi ammantati di virtù, è semplice. Questo vale soprattutto per i giovani, che ubbidendo più al cuore che alla mente, si lasciano facilmente affascinare dai distruttori che mirano alla fine ad una sola cosa: alla clonazione dell'intera umanità. Tutti devono pensare i loro pensieri, tutti devono sentire i loro sentimenti. E purtroppo alcuni ci riescono pure, dando vita a branchi di ragazzi privati ormai di ogni singola volontà. Ed a questi eggregori pochi riescono a sfuggire, perché la gioventù è facilmente manipolabile. Jago non solo è convinto che tutti quelli che la pensano diversamente da lui sono nel torto, è convinto anche che dovrebbero pensarla come lui. Le società di tutti i tempi sono sempre state piene di individui simili. Sono essi i Lucignolo di turno, i nichilisti per vocazione, gli atei apologeti, gli apostoli dell'ego: pura zizzania. La bravissima Anna Luisa Zazo, nel suo bel saggio introduttivo all' Otello edizione Mondadori, ci dice che Jago non voleva creare la tragedia, ma una burla, le cui redini alla fine gli scappano di mano. E' un punto di vista rispettabilissimo, ma per noi l'ombra di simili personaggi ha per ombra la tragedia: dove essi vanno, il dramma li segue. E prima o poi esplode. Otello non è un qualunque deficiente che può essere facilmente preso in giro, e la sua mente, nonostante ben allenata e protetta, nulla può contro il formidabile veleno con cui Jago inbeve la sue parole. E ancora una volta il perfido alfiere è consapevole: "Fra un po' di tempo ,  potrei stillare nell'orecchio di Otello…" (id). Dice "stillare", sta parlando di veleno, di quella carica immaginativa negativa, di quel futuro tinto a fosche tinte, di quella farina con cui friggerà ogni singola calunnia o menzogna nell'olio del male ed al fuoco di una perversa volontà. Tale fritto indigesto è capace di corrompere qualunque mente, è solo questione di tempo. "L'idea è qui (si tocca la fronte - pag. 877 id.) Questo vuol dire che Jago fa nera opera magica, perché ideare significa immaginare, sia nel bene che nel male. Egli, prima che nella realtà, fa muovere Otello e tutti gli altri, dentro la sua mente, nel palcoscenico della sua malizia, della sua infamia, della sua perversità. E quelli, dopo saranno quasi costretti a ripetere quanto lui ha gia "visto" e "ordinato".

"Io verserò nell'orecchio del moro la velenosa insinuazione…tesserò le reti che li stringerà tutti".(pag. 881). Solo un esperto ipnotizzatore, un esperto mago può  pronunciare tali parole. La "velenosa insinuazione" è garanzia di riuscita: per il suo veleno non c'è antidoto. Una volta morsi da tale serpente velenoso, si dà vita a serpenti velenosi che gonfiano il petto del morsicato: "Ora capisco che è vero! - dice Otello nell'atto 3° scena III - Guarda, Jago: così soffio e disperdo nell'aria il mio folle amore…. E' sparito. Sorgi, vendetta, di fondo alla tua nera spelonca. Amore, rinuncia alla tua corona ed al trono nel mio cuore, dove s'insedia l'odio tiranno. Il mio petto si gonfia di serpenti. (pag. 887). Il male che era ben nascosto nella profonda spelonca di Otello è stato risvegliato dal canto delle cattive sirene di Jago. E' questi che pronuncia le parole attraverso Otello, e non più il moro. Il moro è morto col suo amore, e rimane solo il suo fantoccio in mano al cattivo. Otello è divenuto un perfetto burattino nelle mani di un astuto e perfido burattinaio.

Ma tutta questa perfidia deve essere messa ben in evidenza a beneficio di tutti noi burattini spettatori del teatro dei burattini, e per far questo Shakespeare ci regala quello che non è affatto un personaggio minore o di poco spessore. Grazie a Desdemona, il male risalta tanto da imporre a tutti noi di rispedirlo al mittente. Grazie alla dolce e amorevole Desdemona tutti noi costringeremo il nostro male nella sua orribile spelonca per un migliaio di anni. Grazie a lei, il nostro Jago verrà messo a tacere per secoli. Grazie a lei, diverremo tanti Ulisse pronti sempre ad ascoltare le "sirene" ma ben legati all'albero maestro. 

Ma anche Emilia, la moglie di Jago è positiva. Smaschera il marito e svela gli inganni.  Degli altri personaggi (il Doge, Brabanzio, Cassio, ecc.) non diciamo nulla, e lasciamo che il lettore vada a fare il suo dovere leggendo la tragedia.

     Ognuno di noi ha un' ombra che deve imparare a conoscere e deve lasciare parlare. Essa è velenosa e persuasiva come Jago. Se le si dà ascolto oltre misura, ci annerisce il cuore e la mente (Otello) e non siamo più in grado di distinguere il male dal bene. Accecati dal suo potente veleno saremo costretti ad uccidere la nostra anima (Desdemona) e con essa noi stessi.  Ma lasciare parlare la parte peggiore di noi non deve voler dire sguazzarci dentro, fare apologia di essa, o sfruttare le sue mostruose indicazioni per dar vita ad un'arte altrettanto mostruosa ma redditizia. Se non vogliamo che i nostri petti si gonfino di serpenti, limitiamo l'ascolto al necessario: tanto quanto basta per farci capire che la Danimarca siamo anche noi, e che il marcio in Danimarca ci riguarda tutti.

 

Chi volesse approfondire un po' Otello e Shakespeare in generale è invitato a leggere, oltre ai testi già citati, i saggi di Harold Bloom in Shakespeare - l'invenzione dell'uomo - Rizzoli ( Otello da pag. 323 a pag. 370), ed i saggi di René Girad in Shakespeare - il teatro dell'invidia - Adelphi (Otello da pag. 463   a pag. 473). Edmund Kean (citato da Bloom pag. 347), scolpisce una volta per sempre la figura del perfido alfiere: Jago "Pugnala gli uomini nell'oscurità per ammazzare la noia".  Ma Bloom, molto opportunamente aggiunge: "Questa intuizione profetica spinge Jago verso l'epoca di Baudelaire, Nietzsche, Dostoevsckij, un'epoca che, sotto molti aspetti, è anche la nostra. Jago non è un ribelle giacobino italiano, uno dei tanti discendenti dei machiavelliani di Marlowe. La sua grandezza consiste nel fatto di essere sempre davanti a noi, anche se i giornali e la televisione ci mostrano i suoi discepoli all'opera in ogni ambito…I seguaci di Jago sono ovunque" (pag. 347,348).  I figli del nichilismo sono davvero dappertutto, ma Jago, purtroppo, non lo vediamo all'opera soltanto attraverso i suoi discepoli. Egli è presente in carne ed ossa in tutti quei pseudo maestri di vita, in quegli annoiati che predicano il nulla attraverso i media. Jago, come ombra, ce l'abbiamo tutti. Importante è non lasciarci sopraffare quando dall'interno cerca di insinuare nei nostri petti nidi di serpenti. Questo dramma rappresenta proprio il momento in cui l'ombra, reclamando lo scettro del comando, annerisce il malcapitato (Otello), il quale, anziché lasciare soffiare i venti del caos ed aspettare il sorgere della luce (dall' opera al nero, all'opera al bianco), lascia che la sua ombra si esteriorizzi per diventare Satana in persona. Shakespeare, con questa tragedia, vuole anche metterci in guardia attraverso la figura di Otello: cedere all'oscuro è facile anche per un guerriero, per un uomo forte e valoroso. L'odio va combattuto sempre con l'amore. Bloom ci fa notare che Otello se avesse consumato il matrimonio, se avesse amato Desdemona, avrebbe fugato ogni dubbio. Ma ha voluto seguire la voce del serpente ed è impazzito.

Occhio dunque ai falsi profeti, e soprattutto non diamo troppo spazio all'alfiere che ci portiamo appresso: Jago è il male, e purtroppo esso è anche in ognuno di noi.

Grazie, Nat.

 

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