Re Lear

 

     E' questa una tragedia scritta contro l'ingratitudine umana. Shakespeare, che è un profondo conoscitore di se stesso e degli uomini, non perde occasione per ricordarcelo. Ogni suo dramma, a ben guardare, non parla d'altro. Ma qui, in Re Lear, tocca il massimo; l'uomo è uno stolto, sia esso re o schiavo. E' stolto perché spesso usa la sua volontà per scegliere il male piuttosto che il bene, il vizio anziché la virtù, l'odio invece dell'amore, la decisione sbagliata al posto della giusta. I cattivi di questa tragedia non sono solo Edmund, Goneril, Regan, il duca di Borgogna e qualche servitore, ma lo stesso Lear. Possiamo affermare senza ombra di smentita che egli è la causa della sua rovina.

     Ma il messaggio che possiamo cogliere relativamente a noi stessi è che quando ognuno di noi, anziché dare ascolto alla sovrana voce della Coscienza e governare con essa la nostra totalità psico-fisica, fa comandare il sentimento, si mette nei guai. Fuor di metafora: quando Lear-coscienza abdica, e anziché ascoltare la mente-Kent, consegna lo scettro alle passioni-figlie, scartando i buoni sentimenti-Cordelia, diventa "cieco", cioè non vede più le cose come sono, ma come vorrebbe che fossero, ed inoltre non riesce più a distinguere il bene dal male. Ebbene, Shakespeare, dopo avere preso atto che la maggior parte dell'umanità si comporta così, alzando le braccia al Cielo invoca un diluvio che tutto cancelli di questo mondo di matti. Lo fa attraverso la voce di Lear nell'atto terzo scena seconda in compagnia della follia (con il re c'è il matto): "Soffiate, o venti, e fatevi scoppiare le gote! Infuriate! Soffiate!  Cateratte e trombe del cielo, riversatevi sulla terra, finché abbiate sommerso tutti i campanili, ed annegati i galli sulle loro cime. O voi sulfurei guizzi di fuoco, rapidi come il pensiero, precursori dei fulmini che fendon le querce, strinate la mia testa canuta! E tu, o tuono scotitor dell'universo, spianta d'un colpo la solida sfera del mondo! Infrangi le matrici della natura, disperdi tutti in una volta i germi, che producono l'uomo ingrato! " (Shakespeare - Opere- Sansoni, pag. 923).  E questa è l'immagine della follia umana che tutto distrugge in questa bellissima natura. Come un ciclone sdradica tutto da tutto e fa girare ogni cosa nel caos del suo occhio cieco. Ad ogni essere toccato da tali folli venti viene sottratto il "'luogo" naturale e quindo lo scopo della sua vita. Tutto è morte in quell'occhio cieco di ciclope. Sì, perché la follia è titanica, forte della forza dell'odio distruttivo. E' in quei momenti che l'uomo folle "vede" la propria mente fuori sotto le sembianze del folle. Il matto di Lear è la sua mente, che ormai senza radici, come un coro greco (Bloom) canta tutta la sua angoscia e la sua pietà per se stessa. Il re ormai non può più comprendersi e comprendere: la sua regalità è fuori di sé ed è per giunta dissennata. Questo tremendo uragano, dall'orecchio esperto, può essere avvertito fin dall'inizio , attraverso quel vento gelido provocato dal modo con cui il re intende passare lo scettro. La follia ha qui le sue origini: il re vorrebbe "toccare" l'amore delle figlie per lui attraverso le parole. Ma come per un filosofo che intende scoprire la verità col pensiero e mettersela davanti con lo scritto, il suo desiderio fallisce miseramente. L'amore va da cuore a cuore, non da orecchio a orecchio, e non da parola a parola. Cordelia questo lo ha capito, il re no.  In Re Lear - ci dice la Anna Luisa Zaso nel suo Introduzione a Shakespeare,  Laterza, pg. 105 - " Shakespeare tocca tali vette di poesia, di assoluta disperazione e di infinita pietà", che è difficile da accettare. Ha perfettamente ragione, perché, mettendo Lear di fronte a se stesso e alla sua fragilità umana nonostante la regalità, mette noi di fronte a noi stessi. Pertanto, poesia, disperazione e pietà, diventano archetipali, perché figlie di tutta l'intera umanità. Anzi, diremmo la voce di Lear è quella della Storia: il passato viene sempre oltraggiato, deriso, dal presente storico, ed il futuro, a suo tempo, sarà ingrato verso quel passato che un tempo fu presente… Ecco perché la disperazione di Lear è insopportabile: è la storia che scaglia l'anatema!

Nelle parole del vecchio Lear povero e pazzo nascono accenti pesanti, insopportabili, terribili. Per un uomo a cui sfugge la fede e Dio, non resta che disperazione assoluta e follia. Ma attenzione: folli lo siamo tutti, sia quelli che riescono ad abbandonarsi all'uragano, sia quelli che combattono con esso, sopravvivono ed aspettano la successiva tempesta.

     Ma Lear è anche una sorta di Gulliver: prima era grande, ora è piccolo; era ricco, ed ora è povero. Quando egli, nell'infuriare della tempesta, viene invitato ad entrare in una capanna, rivolge il pensiero ai miseribili, e prima di mettersi all'asciutto vuole purgare la sua passata regalità, la vuole "curare". Fa entrare il suo matto e si lascia andare ad una amara considerazione: "O poveri disgraziati ignudi, dovunque siate, che soffrite l'assalto di questo uragano senza pietà! Le vostre teste scoperte e i vostri fianchi digiuni, i vostri stracci tutti buchi e finestre, come potranno difendervi da una stagione come questa? Oh! troppo poco pensiero io mi son preso di voi! Eccoti la medicina, o lusso: esponi te stesso a soffrire ciò che soffrono i miseri, affinché un giorno tu possa riversare su loro il superfluo, e far sembrare più giusto il cielo". (ivi 925).

     Parallela a quella di Lear e le figlie scorre la storia del conte di Gloucester e dei suoi due figli Edgar ed Edmund. Qui c'e ingratitudine ed anche di peggio. Quindi la dose è doppia e indigesta per chiunque. Quanto alle figure delle figlie di Lear,  Goneril e Regan, l'accostamento a Jago è d'obbligo. In esse il male è palpabile: ogni parola che pronunciano ogni pensiero pensato sono intrisi di esso. Nel loro sangue, lussuria e ambizione scorrono mischiati. La loro perversità, la loro freddezza nulla hanno da invidiare a quelle di Lady Macbeth e di Jago.  In ognuno di noi albergano bene e male. A volte capita che qualcuno, con la propria volontà, riesca a soffocare completamente la voce del bene. In quel caso la persona diviene male assoluto incarnato: ogni suo respiro, ogni sua fantasia, ogni sua immaginazione, ogni passo, ogni sogno, ogni cosa si muove al ritmo del male.

Attorno a tali esseri ruotano le tragedie di Shakespeare e  quelle del mondo. Ma il niente non produce niente, ed alla fine tutti vengono annientati dal loro vuoto. Tutto ciò succede anche in Re Lear, ma il bene qui non trionfa, perché la povera Cordelia morirà per la malvagità di Edmund, ed il re mentre la tiene in braccio morirà pure lui di crepacuore. A volte va pure così.Ma una fiammella di bene rimane: Edgar vendica la cecità del padre promossa dal fratellastro Edmund, e vive.

   Infine, a conferma di quanto abbiamo detto sopra riportiamo un brano di Harold Bloom (Shakespeare , l'invenzione dell'uomo - Rizzoli, pag. 409): "  La morte è l'offesa suprema che tutti noi dobbiamo subire, e la vera profezia di Lear non si rivolge contro l'ingratitudine filiale bensì contro la natura, nonostante il re affermi più volte di parlare per conto di quest'ultima".

     Finita la tragedia, ci ritroviamo più soli e scossi che mai. La nostra identità, per un po' è stata rubata, magnatizzata dalla poesia altissima di Shakespeare. Ci sentiamo come appena rinati, anzi: reinventati. Il dramma ci ha tolto da sotto i piedi la terra vecchia su cui camminavamo o stavamo, e l'ha sostituita con terra buona, fertile e diserbata. Grazie, Nat.

 

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