Dostoevskij-Diario di uno scrittore

 

Va detto subito che  Diario di uno scrittore non è un diario. Si tratta di giornalismo. Dostoevskij aveva accettato la direzione di una rivista mediocre ("Il Cittadino"), ed in essa, a partire dal 1873 e fino  al 1881, pubblicò mensilmente questo Diario. Gli argomenti in esso trattati sono i più vari: attualità, politica, religione, fatti di cronaca, qualche racconto, argomenti vari. Esso è una finestra aperta sulla Russia di quel tempo e sull'animo dell'uomo Dostoevskij. Attraverso il Diario è possibile dare una sbirciata alle radici del popolo russo: l'ortodossia cristiana. Con sorpresa abbiamo scoperto tracce di antisemitismo, diciamo così, moderato, in questo grande scrittore, che però mai manifesta odio contro gli ebrei. Quando scrive " Gli ebrei e i polacchi distruggono la Russia" non fa che ripetere un luogo comune allora in voga. Armando Tonno, nell'introduzione al Diario ediz. Bompiani pag. XV spiega come lo scrittore veda nell'ebreo una mentalità basata sul freddo calcolo al fine di trarre vantaggi dal commercio senza badare alle sofferenze altrui, e contrappone ad essa l'abnegazione del russo che va oltre lo spietato razionalismo ebraico. Ed è proprio qui, in questa caratterizzazione, che egli ci permmette di vedere le fondamenta dell'animo russo.
Dopo averlo letto, condividiamo quanto del
Diario dice Armando Tonno: "agenda, laboratorio, palestra per provare l'impatto degli argomenti, spazio per dar sfogo alle impressioni, specchio delle contraddizioni di un 'epoca', luogo dove si pensano idee e personaggi, gabinetto critico e di scrittura, tribuna politica, angolo dei pregiudizi…". Certo A. Tonno non dimentica per un solo istante che Dostoevskij è uno scrittore di romanzi, per cui il Diario è tutto quello che ha detto. Ma il Diario è molto altro ancora: una dichiarazione d'amore per tutta la terra russa ed il suo popolo, un'apologia del cristianesimo ortodosso, un lungo discorso sulla slavofilia, il luogo dei sentimenti, e, non dimentichiamolo, un'opera giornalistica.
Se Dostoevskij "ci spinge nei grandi romanzi disperatamente verso Dio", nel
Diario ci spinge pazientemente verso
  la massima biblica: ama il prossimo tuo come te stesso. Lo fa servendosi di fatti di cronaca nera, di sentenze del tribunale, di politica, di economia, di sociologia, e di tanti altri argomenti apparentemente banali.
Nel
Diario ci imbattiamo spesso in un Dostoevskij malato che avverte i lettori della non uscita del suo mensile per qualche tempo; uno scrittore appassionato al problema slavofilo; sensibile alle problematiche della famiglia; umorista; una persona ricca di buon senso e di umiltà capace di riconoscere i propri errori, pronto a confrontarsi con i suoi lettori, a cui spesso risponde dalle pagine del suo mensile. Insomma ci troviamo di fronte ad un pensatore a tutto campo, che però, stranamente, pur essendo letterato, parla pochissimo di letteratura, limitandosi ad elogi a Puskin e Tolstoij, qualche debole critica ad un personaggio di Anna Karenina.
Si è detto che questo
Diario sia stato una sorta di preparazione a I fratelli Karamazof e sia stato anche il pensiero dostoevskiano nel suo divenire (Ettore Lo Gatto). E' proprio così, perché, ora intervenendo a difesa di una giovane madre condannata all'ergastolo, ora inserendo nel Diario degli strani racconti, lo scrittore sta sicuramente facendo le prove generali per i suoi futuri romanzi. Ma non dimentichiamo che, sempre, quando uno scrittore "racconta", non fa altro che studiare se stesso per conoscersi, e, così facendo, studiare l'uomo e la collettività.
Ma cominciamo a penetrare in questo
Diario, e prendendo spunto dai suoi contenuti cerchiamo di renderlo attuale in quelle tematiche che interessano ancora oggi la nostra malata società.
Già nell'introduzione Dostoevskij
  ci invita alla riflessione attraverso una ironica considerazione sulla stupidità, ricordandoci che prima di quel tempo, ammettere "io non capisco niente di questo o di quello" manifestava solo stupidità, mentre "adesso" (siamo nel 1873), se la stessa cosa si pronuncia con aria seria e superba, ci si pone subito "ad un'altezza straordinaria". "In sostanza, conclude,  da noi ognuno sospetta l'altro di stupidità, senza riflettere e senza rivolgere a se stesso la domanda inversa: ma non sono forse io lo stupido?" (Pag. 5 op. cit.).
Già da principio, dunque, Dostoevskij
  manifesta le sue radici cristiane richiamando la pagliuzza e la trave dei Vangeli, ma amplificando il concetto, senza nominarlo, sembra voler parlare del politico, il quale spesso, pur non conoscendo nulla, parla come se conoscesse tutto, ed anche quando sa di non sapere e quindi di essere idiota, ovvero sciocco e ottuso, gonfia il petto, ammette la propria ignoranza con tecnica sopraffina, e tutto un popolo di sciocchi lo lascia a quella illusoria altezza cui lui stesso si è posto. Oggi, con situazioni del genere potremmo riempire un trattato. Falsi maestri pullulano in tutti i campi. Ognuno esalta l'altro in un assurdo giro di apologie dell'idiozia. Stanno distruggendo tutto il distruttibile (valori, morale, etica, buon senso, tradizioni, principi, consuetudini, ecc.). Dicono: è tutto vecchio e morto. Ma non mostrano di avere progetti alternativi: distruggere e basta.. Quando lo sciocco si auto incensa con superba seriosità è un fatto, ma quando lo sciocco riesce a istupidire le masse e a farsi incensare per decenni, la situazione diventa drammatica sia per gli sciocchi "guidatori" che per gli sciocchi "guidati". Dostoevskij  invitava a porre la domanda a se stessi: non sono forse io lo sciocco?  Noi ce la siamo posta questa domanda e ci siamo anche data una risposta: sì, siamo anche noi stupidi, perché fino ad oggi non ci siamo impegnati abbastanza sulla strada della conoscenza, perché poco o nulla abbiamo fatto per far riaffermare l'ordinario vecchio buon senso, perché non abbiamo combattuto con tutte le forze l'idiozia in noi e negli altri, perché non siamo riusciti ancora a far toccare con mano ai distruttori di tutto i gravissimi danni derivanti dalla mancanza di progettualità. Noi abitiamo in una nazione, l'Italia, in cui da oltre sessanta anni è in atto una sorta di guerra civile: mezza nazione considera idiota l'altra metà, ele due fazioni non riescono a rendersi conto di stare recitando la puerile e assurda guerra infinita dell'uovo  dei Viaggi di Gulliver: due imperatori si combattono perché uno asserisce che l'uovo debba essere rotto dalla parte larga e l'altro asserisce debba essere rotto dall parte stretta. La graffiante satira dello  Swift di questo romanzo può ancora oggi graffiare come allora: i nostri governanti, anziché pacificare aizzano, alimentano il giochino dell'uovo, riuscendo a "idiotizzare" intere masse, che una volta convinte del giusto punto di rottura dell'uovo vedono nei loro suggeritori-imperatori degli illuminati, e li eleggono alla maniera degli Yahu dello stesso romanzo: "Nella maggior parte delle mandrie c'era una specie di Yahu capo… Questo capo ha di solito un favorito che gli somiglia il più possibile… Di solito il favorito dura in carica finché non ne viene scovato uno peggiore di lui: nel momento stesso in cui è licenziato, tutti gli Yahu del distretto, giovani e vecchi, maschi e femmine, con alla testa il suo successore, arrivano in massa e lo ricoprono dei loro escrementi  dal capo ai piedi" (I Viaggi di Gulliver - ediz. 1987 Bur, pag. 467 ). Mettiamo la parola "idiozie" al posto di "escrementi" ed abbiamo un fedele quadro della situazione.
Purtroppo oggi la satira è usata anche dai nostri odierni Yahu, che, forti dei poteri che detengono e dei mezzi di divulgazione, riescono a mettere subito in cattiva luce il buon senso degli odierni pochi Jonathan Swift, e nel triste panorama di distruzione, gli escrementi (le idiozie) salgono. La sciocchezza impera. L'idiozia comanda e si allevano Yahu in casa: "
Il palazzo di un primo ministro è un seminario per tirar su altri nello stesso mestiere: paggi, lacché, portieri, imitando il loro padrone, diventano ministri di Stato ciascuno nella propria giurisdizione e imparano a eccellere nelle tre doti fondamentali, l'insolenza, la menzogna e la corruzione" (Op. cit. pag. 456). Swift sta ovviamente parlando della sua patria, e se noi lo riportiamo non è certo per parlare della nostra, dove, per fortuna, siamo rimasti al problema dell'uovo…e dove operano fior di cervelli bacati dal tarlo della saggezza, rosi dalla febbre della ricerca, fusi nel fuoco della passione per la vera verità.
Uscendo dal mondo di Gulliver e tornando coi piedi per terra, è come se delle due gambe della nazione, una gamba volesse eliminare l'altra!
Caro Dostoevskij, qui nessuno di questi nostri illuminati fari pare si sia mai posto quella domanda, se no mai e poi mai sarebbero potuti passare sessanta lunghi anni di assurda fredda e strisciante guerra civile che non ha solo reso più virulenti l'odio, la rabbia, la crudeltà, la malizia, l'ambizione, la faziosità, ha anche alimentato l'ipocrisia, la follia, la perfidia, l'invidia e mille altri vizi. Quando Gulliver elencò tutti i difetti dei suoi conterranei attraverso la narrazione degli ultimi cento anni della storia del suo paese al re di Brobdingnag, qquesti fu costretto a concludere che la massa dei compatrioti di Gulliver era
 "la più perniciosa e abominevole razza di insettaglia cui la natura abbia permesso di strisciare sulla faccia della terra" (Pag. 242 op.cit.).
Oggi, noi occidentali possiamo considerarci tutti figli di una stessa nazione, ma se lasciamo che l'idiozia imperversi ancora distruggendo gli ultimi residui di buon senso, questi nostri capitani ci ricorderanno molto da vicino gli accademici di Lagado (siamo sempre nei
Viaggi di Gulliver), dove qualcuno cerca di estrarre raggi solari dai cetrioli, qualcun altro studia il modo di far tornare cibo gli escrementi, c'è chi è intento a ridurre il ghiaccio in polvere da sparo, chi propone di fabbricare le case cominciando dal tetto, chi propone di sostituire i bachi da seta con i ragni, chi propone invece di scrivere libri di filosofia, politica, diritto, matematica, teologia e poesia tramite una macchina che compone frasi a casaccio, per non parlar di chi propone di ridurre le parole a monosillabi ed eliminare verbi e participi; chi suggerisce di abolire le parole e di parlare esibendo le cose di cui si voglia discutere. Quanto ai politici si propone, in caso di discordia fra fazioni, di prendere un centinaio di faziosi di ogni partito, segare a metà le loro teste, e poi far combaciare la metà di chi la pensa bianca con la metà di chi la pensa nera. Relativamente alla tassazione viene proposto di: tassare il vizio e la follia; oppure lo spirito, il valore e la cortesia; la bellezza e l'eleganza delle donne; quanto a castità, buon senso e buon carattere, si sconsiglia assolutamente la tassazione.
  Insomma le cose più strane e assurde: le comiche.
Sempre nell'introduzione Dostoevskij
  dice una cosa importante: "Di che parlerò? Di tutto ciò che mi colpirà e mi farà riflettere", e ne dà subito prova nell'articolo " Gente d'altri tempi". Parla di Belinskij, un suo amico appassionato socialista, che credeva nelle basi morali del socialismo, ma che allo stesso tempo voleva abbattere il cristianesimo perché la rivoluzione esigeva l'ateismo: "Noi siamo anzitutto un'associazione ateistica"  dichiarava l'Internazionale. Il nostro scrittore sottolinea come, nonostante il grande entusiasmo di questo suo amico e di tanti altri, "rimaneva la luminosa personalità di Cristo, contro la quale era più difficile che mai lottare". Dostoevskij  stava mettendo il dito nella piaga appena apertasi: il tentativo di distruggere le radici cristiane dell'Europa. Sappiamo tutti come è andata a finire da quelle parti: l'ortodossia è ancora più viva che mai, mentre quella ideologia che voleva sostituirsi al cristianesimo è miseramente fallita. Fedor sapeva benissimo che senza basi morali si crea prima il caos e poi la fine di qualunque associazione. La disciplina dell'anima e del corpo è essenziale, basilare per una civile e corretta convivenza, ed il nichilismo porta solo una cultura di morte.
Come si vede, sono questi temi di scottante attualità, e fanno ancora riflettere. Nell'articolo successivo
  ("L'ambiente") Dostoevskij  va più a fondo nell'indagine. Se non ha più basi morali, un popolo non è più in grado di distinguere il bene dal male: "giungeremo a poco a poco alla conclusione che i delitti non esistono affatto,  e di tutto ha colpa l'ambiente. Giungeremo, seguendo il filo del ragionamento, a considerare il delitto persino come un dovere, come una nobile protesta contro l'ambiente  insomma la dottrina dell'ambiente porta l'uomo a una piena spersonalizzazione, al suo pieno affrancamento da ogni dovere morale personale, da ogni indipendenza,  lo porta alla più schifosa schiavitù immaginabile" (pagg. 19, 20 op. cit.). Quindi esiste solo questa "infame organizzazione dell'ambiente, e i delitti non esistono affatto", e in tanto si spegne la fiducia nella legge. Diteci voi se non sembra uno dei pochi articoli pieni di buon senso di qualche raro giornale di oggi. Dostoevskij  è stato lungimirante, ha capito subito come sarebbe andata a finire per quella strada. Oggi ci troviamo di fronte ad un buonismo che nulla ha a che vedere con i dettami evangelici e con una giusta legge. Il cristianesimo riconosce sì la pressione dell'ambiente, fa osservare il nostro, ma l'uomo ha il dovere di lottare contro di essa: "pone un limite dove finisce l'ambiente e comincia il dovere".  E qui il nostro scrittore, da vero educatore delle masse, con sottile acume psicologico, dichiara che, quando considera sventurato un delinquente, il popolo sa benissimo che l'ambiente dipende da lui, dal suo "ininterrotto pentimento ed autoperfezionamento". In questo articolo Dostoevskij, spingendosi ancora oltre un'analisi sociologico-giuridica, arriva ad anticipare i concetti freudiani e Junghiani di Inconscio e di Inconscio collettivo. Ma non potendo riportare tutta l' intera ottima traduzione di Ettore Lo Gatto, invitiamo il lettore a verificare (pag. 21 e pag. 51). Ma L'analisi acutissima   non finisce qui. Fedor accusa apertamente gli avvocati di eccessivo buonismo e li esorta: "Smettetela di agitarvi, signori avvocati, col vostro ambiente" .
Da buon russo Dostoevskij
  la cristianità la sente fin dentro le ossa e non perderà mai occasione di ribadirlo. Per esempio in Vlas (un articolo che porta il nome di un personaggio di poesia) scrive: "Si dice che il popolo russo conosca male il Vangelo, non conosca i precetti fondamentali della fede. Certo, è così, ma esso conosce Cristo e Lo porta nel cuore da tempo immemorabile… forse l'unico amore del popolo russo  è Cristo" (pag. 52 op. cit.).
Come dicevamo all'inizio, di tanto in tanto nel
Diario appare un racconto. Il primo (molto divertente) è Bobòk. Si tratta di una strana avventura occorsa in un cimitero a Ivàn Ivànovic: dapprima sente delle voci indistinte (Bobòk, appunto) e poi piano piano sarà testimone uditivo di una lunga conversazione fra spiriti di defunti. Uno sternuto di Ivàn porrà fine ad essa. Riporteremo solo alcune parole pronunciate dallo stesso qualche attimo prima che cominci a raccontare la sua avventura cimiteriale: "
Il più savio di tutti, secondo me, è quello che almeno una volta al mese si dà dello stupido da sé; capacità che ora è inaudita! Prima, al massimo, lo stupido almeno una volta all'anno sapeva di essere stupido; mentre adesso mai, non c'è pericolo. E hanno imbrogliate le cose a tal punto, che non si distingue più uno stupido da un savio… Non è chiudendo un altro in un manicomio che si dimostra la propria saviezza" (Op. cit. pag. 60 - la sottolineatura è nostra). Incredibile come molte cose scritte da tale anomalo giornalista siano così attuali. Oggi distinguere uno stupido da un saggio è impossibile, perché le poche persone dotate ancora di buon senso  si sono tutte nascoste per non esseere derise: il buon senso è diventato sinonimo di follia o quanto meno di stupidità. E non staremo a far paralleli con Gulliver e i suoi strani incontri a base di cavalli intelligenti, perché manca ormai poco al dover constatare che gli unici esseri intelligenti sulla faccia di questa terra potrebbero essere gli animali. Non occorre proprio servirci di Swift: basta guardarsi intorno, leggere giornali e libri, guardare la tv, andare al cinema o al teatro, ascoltare una canzone, assistere alle pietose esibizioni di molti dei nostri cosiddetti comici, leggere qualche libro di filosofia (!) di qualche filosofo (?) contemporaneo, sentir parlare un politico, ecc.
Dicevamo come spesso Dostoevskij
  risponda volentieri ai lettori. A volte gli succede di vivisezionare l'anima loro attraverso le lettere che scrivono al suo giornale. In "una mezza lettera di un tale", per esempio, con genialità dà modo a Freud (ancora una volta) di "scoprire" con molta meno fatica il processo di "proiezione".  Un tizio parla del suo rivale letterato (D.), lo ingiuria ed è convinto che l'ingiuriato arrivato a casa correrà per la stanza come un pazzo, si strapperà i capelli, inveirà contro la moglie e caccierà i suoi figli. Al che Dostoevskij risponde che sarà proprio lui a fare tutte le cose che immagina faccia l'altro. E concluderà: "Ti scopri da te stesso" (vedi pag. 94  op. cit.).Lo stesso trattamento riserva ad un sacerdote che in un giornale (Il Mondo russo) lo  ingiuria. "Sappiate, padre, che sebbene doveste conoscere un poco il cuore umano, se non altro per la dignità che rivestite, non lo conoscete per nulla", dirà, e andando poi più sullo specifico (cioè sull'arte  di un romanziere fortemente criticata da tale sac. Kastorskij)  lo paragonerà a quel calzolaio che mentre osservava un quadro indicò all'artista dapprima un errore nei calzari che subito fu corretto, e poi un errore nel viso e nel seno di una donna, ma l'artista lo interruppe deciso: "non giudicare, amico, più su della scarpa!"; aggiungendo: "Voi, padre, siete come quel calzolaio, con la sola differenza che neppure nei calzari avete saputo indicare delle indicazioni…  Qui, vedete, per capire qualcosa dell'anima umana e 'giudicare più su della scarpa', ci vorrebbe un po' più di sviluppo intellettuale in un altro senso, un po' meno di quel cinismo, di quello 'spirituale' materialismo; un po' meno di quel disprezzo per le persone… un po' più di fede, di speranza, d'amore! Guardate, per esempio, con che volgare cinismo trattate me, con che sconvenienza, disdicevole alla dignità che rivestite… Vergogna, sig. Kastorskij… non siete altro che un mascherato". Ovviamente l'articolo portava il titolo La Maschera.
Abbiamo riportato questi due ultimi brani per sottolineare come la maggior parte delle persone porti una maschera, e come ciò dipenda dalla mancata conoscenza di se stessi e quindi degli altri. Siamo sempre alla pagliuzza e alla trave evangeliche. Noi, per esempio, spesso mettiamo in evidenza la trave nell'occhio di molti nichilisti, ma non vediamo certo nichilisti dappertutto, anche se il nichilismo sta dilagando. Quando dedicando un saggio al grande Leopardi lo accusiamo di nichilismo, esprimiamo allo stesso tempo il più grande rispetto e la più grande ammirazione per il pensatore e il poeta. Il giuoco della pagliuzza e della trave diventa serio quando la critica trabocca di disprezzo, di cinismo, di odio, invidia, ecc. Ed ecco che ancora una volta occorre usare buon senso, moderazione, compassione, rispetto per le persone, gli animali e le cose. Se agiamo sotto la spinta di ira, invidia, accidia, superbia ecc., ci comportiamo come mascherati, come il prete di cui sopra. Chi non sa quello che dice e quello che fa è come una foglia secca al vento: vola di qua e di là senza poter avere una volontà diretta, uno scopo, un progetto. Va dove il vento vuole. Ma tutti sappiamo bene quanto difficile sia sconfiggere i propri vizi. Soprattutto quando la mentalità collettiva comincia ad essere buonista e permissiva fino all'eccesso. In quel caso si diventa indulgenti con se stessi e con gli altri, ed ancora una volta non si riesce più a distinguere il bene dal male. Ed ecco che torniamo alla indispensabilità delle basi morali di una società: se esse mancano, il male impazza ed i vizi indossanno la maschera delle virtù. Le leggi, le consuetudini, le tradizioni sono indispensabili, perché il rispetto di esse facilita il controllo su se stessi.  Dostoevskij, nell'articolo Sogni e fantasie, sottolineando come con il denaro non si può comprare tutto, e come con i soldi si può sì costruire una scuola, ma non si può improvvisare un maestro, perché esso è prodotto di un lungo processo, sigilla il suo discorso con una frase che vorremmo incorniciare:
Gli uomini non sono altro che il prodotto dei secoli
Non possono essere comprati in nessun mercato. Per costruire l'uomo civile di oggi il tempo ha impiegato secoli, anzi millenni. Ciò che il pensiero umano ha ideato di buono, giusto, bello, saggio, santo affinché venisse assimilato dalle masse ha richiesto un gran lavoro di indirizzo e persuasione. Ma nonostante ci sia voluto tanto per edificare, per distruggere occorre un attimo. Quindi smascheriamoci tutti, ed agiamo per il bene. La nostra civiltà è il prodotto di secoli, deve essere migliorata sempre, ma non distrutta con rivoluzioni permanenti: se eliminiamo gli aratri e i trattori perché sono vecchi e non inventiamo qualche altro modo di arare la terra moriremo tutti di fame.
Spesso Dostoevskij
  si occupa di politica e lo fa pure con passione.  In Una delle falsità contemporanee, un articolo che parte da certe critiche sollevate ai contenuti del suo romanzo I Demoni, sfiora il problema della gioventù, la quale, a suo parere, non è definitivamente formata dalle sole conoscenze, dagli studi, da nozioncine scolastiche. L'anima del giovane, ottenendo la laurea non acquista l'incrollabile talismano per conoscere, una volta per sempre, la verità ed evitare le tentazioni, le passioni e i vizi. La cosa più importante, dice il nostro "giornalista", è dunque indirizzare questa gioventù.  Allora, come oggi, il problema è attualissimo. Dare un indirizzo certo ai giovani è  problema di ogni generazione. Guarda caso, attorno al 1870, in Russia accadeva ciò che ai nostri tempi succede regolarmente: l'unico indirizzo che viene dato ai giovani è quello di distruggere il vecchio anche prima che il nuovo nasca (ne parlavamo poco sopra). Ecco cosa scrive Dostoevskij, partendo da un'analisi del 1848: "  Nulla è ancora stabilito intorno a quello che ci sarà di mutato  nella società futura, ma è stabilito soltanto che quella presente  (la società presente) deve crollare; e per ora la formula del socialismo politico è tutta qui" (pag. 198, op. cit.). Tutto questo veniva ottenuto, fa capire lo scrittore, diffondendo in mezzo ad affamati operai privi di ogni cosa un profondo disgusto per la proprietà ereditaria, ed un'impazienza per future beatitudini cantate da teorie politiche. E aggiunge che "… da tutto ciò derivò più tardi il socialismo politico, la cui essenza, nonostante tutti gli scopi annunciati, consiste per ora soltanto nel desiderio di un saccheggio generale di tutti i proprietari da parte delle classi povere, e poi sarà quel che sarà" (Id.) Dostoevskij ammette che queste idee, negli anni quaranta contagiarono pure lui: "s'impadronivano dei nostri cuori" queste idee di fraternità universale.
A noi non importa l'aspetto politico della vicenda, ma solo il discorsdo degli indirizzi da dare alla gioventù. Che un nascente movimento politico fosse all'inizio caratterizzato da incertezze, confusione ecc., è normale. Quello che ci colpisce è ancora una volta l'analisi puntuale fatta da Dostoevskij
  sulla società del suo tempo, relativamente a tale importante problema. Sentite un po' cosa dice in proposito: "I giovani delle nostre categorie intellettuali - sono educati nelle loro famiglie, in cui… la vera cultura è sostituita da un'impudente negazione che riecheggia motivi altrui; dove gli impulsi materiali predominano su ogni idea elevata; dove i figli vengono educati senza basi all'infuori della verità naturale… ecco dov'è il principio del male: nella trasmissione delle idee…",  cioè negli indirizzi. Dopo di che passa a sottolineare come i Darwin, i Mill, gli Strauss (che "predicano in Europa, ma che vengono seguiti passivamente in Russia) "hanno talvolta un modo molto curioso di considerare i doveri morali dell'uomo moderno".  E qui si lascia andare ad una sorta di profezia, che noi riteniamo puntualmente confermata dai fatti del nostro tempo: "A me sembra fuor di dubbio che, se lasciaste a tutti questi alti maestri contemporanei la piena possibilità di distruggere la vecchia società e ricostruirla a nuovo, ne verrebbe fuori una tale tenebra, un tale caos, qualcosa di talmente volgare, cieco e inumano, che tutto l'edificio crollerebbe sotto le maledizioni dell'umanità prima di essere compiuto". 
Abbiamo voluto evidenziarlo, questo brano, perché fotograva l'attuale nostra società: tenebra, caos, volgarità, cecità, inumanità, e chi più ne ha più ne metta. Ma le tenebre ed il caos non piovono dal cielo come vorrebbe far credere un giornalista del nostro tempo, che, concludendo un articolo su Charles Baudelaire (1821-1867, quindi contemporaneo di Dostoevskij), scrive: "Ha immaginato un mondo che oggi esiste e l'ha descritto con una precisione sconcertante". No, signori; tenebre, caos, volgarità, trasgressione ad oltranza, cecità e stupidità, funzionano come la peste: uno ne è portatore e piano piano contagia gli altri. Stiamo parlando di quegli indirizzi cui si riferiva il nostro scrittore. I Baudelaire sono stati solo dei cattivi maestri, che appestando migliaia di giovani hanno contribuito a far sì che il mondo divenisse quello che è. Non è possibile fare di un falso maestro un profeta: il poeta maledetto non ha previsto un bel niente. Quando un verme penetra nella mela non prevede il marcio che colpirà il bel frutto: lo farà semplicemente marcire. Uno che scrive: "Poeti illustri si erano spartite da un pezzo le province più floride della poesia. Mi è parso piacevole, e ancora più gradevole per la difficoltà dell'impresa, di estrarre la bellezza dal male" - uno che parla così, o è un grande alchimista oppure è un adorastore del male, ovvero un vizioso. Se il punto di partenza è la colonizzazione dell'unica provincia ancora non conquistata dai poeti, beh, il tutto non può che risolversi in una volontaria o meno apologia del male. Quando Baudelaire in Mon coeur mis à nu dice che nell'uomo vi sono due tendenze simultanee (deux postulations), l'una verso Dio e l'altra verso satana, e precisa che l'invocation à Dieu, ou spiritualité, est un désir de monter en grade; celle de satan, ou animalité, est une joie de descendre (I Fiori del male - introduzione, pag. 9 - ed. Newton), dichiara anche, e piuttosto apertamente, da che parte sta: quel joie è tutto un programma. Verso Dio, un desiderio; verso satana, una gioia…Sì, Baudelaire parla sia del male che di estasi, ma tutto sta a vedere se queste estasi sono prodotte da vizi o da virtù; da droghe o preghiere e meditazioni. Qualunque cosa dia piacere tende a oltrepassare ogni limite pur di provarlo, e se per mieterlo occorre fare anche del male, ogni sforzo per non provare quei piaceri derivanti dallo stesso male diventa vano: la forza di quella… gioia (?) è invincibile. Come può un anima cibarsi di "sfumature morbidamente ricche della putredine, di rose tisiche, di gialli di fiele, di grigi plumbei di brume pestilenziali, di verdi velenosi, di tutta quella gamma di colori esasperati, che corrispondono… all'ora estrema delle civiltà"? Come può un'anima cibarsi  del "compiacimento negativo dell'orribile, della depravazione" (Gautier)?  Come può l'anima provare voluttà facendo il male con dolo, cioè sapendo di fare del male? No, questo cattivo maestro non è un vero alchimista, ed ha ragione Massimo Colesanti quando, smettendo di elogiare il poeta francese, nell'introduzione del testo appena citato, afferma che quella di Baudelaire "è un'alchimia alla rovescia, in cui si muta l'oro in ferro". E qui nasce tanta tristezza, perché tale aberrante alchimia è il gioco preferito dei cattivi maestri odierni, dei nichilisti per passione, dei distruttori d'ogni bellezza; degli imbrattatori del buon senso. La preoccupazione di Dostoevskij  di vedere i giovani traviati da cattivi indirizzi dei falsi maestri è fondata. Certo, il male alberga insieme con il bene in ognuno di noi, ma questo non ci autorizza a sposarlo: il male fa male a chi lo sposa e agli altri. Un conto è commettere un "errore", un conto è vivere di errori.  Purtroppo, constaterà il grande romanziere russo, "Ci sono nella vita degli uomini dei momenti storici, in cui una scelleratezza evidente, sfacciata, volgarissima può venir considerata nient'altro che grandezza d'animo, nient'altro che nobile coraggio dell'umanità che si libera dalle catene" (Op.cit. pag. 201). Ancora una volta sembra fotografare la società in cui oggi viviamo: il marcio è diventato bello in ogni campo, dalla pittura, alla scultura, dalla tv, al cinema, dalla moda alla politica, dallo sport a tutto il resto. E la cosa triste è che tali scellerati non si limitano a "scellerare", invitano la gioventù ad emularli, inculcando l'idea che progressismo è sinonimo di scelleratezza. E' così che nasce quello che in un altro articolo del Gennaio 1886 Dostoevskij  chiama il prurito moderno della depravazione.
Come vediamo, lo sguardo del nostro romanziere si spinge lontano. D'altro lato non occorre essere dei geni per capire come va a finire una situazione partendo dal presente. Il semplice buon senso è sufficiente. Per esempio, egli nota come tutta la pedagogia del tempo si preoccupasse continuamente di facilitare lo sforzo di crescita intellettuale ed emotiva ai fanciulli. Ed ecco che fa una giustissima considerazione: "Facilità non è sempre sviluppo, qualche volta anzi significa regresso. Due o tre idee, due o tre impressioni più profondamente vissute nell'infanzia, con uno sforzo proprio (e, se volete, con propria sofferenza) avvieranno il fanciullo nella vita più profondamente che non la scuola più organizzata nel facilitare le cose, dove nulla è preciso, né bene né male, dove perfino il vizio non è vizioso e le virtù non sono virtuose" (Pag. 217 op. cit.).
Che i nostri giovani oggi godano di facilitazioni esagerate non è un mistero.
  Lasceremo pertanto ai lettori il compito di verificare l'attualità dei contenuti del  suddetto corsivo nella società moderna.
Nell'articolo di Gennaio III, il nostro atipico giornalista continua ad occuparsi di temi che fanno riflettere. Prende in esame la tecnica, e supponendo che all'improvviso tutte le conoscenze piovano sull'umanità, si chiede cosa succederebbe agli uomini, e si risponde che: si sentirebbero felici, coperti di beni di ogni genere, "camminerebbero in aria o volerebbero",
  percorrerebbero distanze straordinarie dieci volte più velocemente che con la ferriovia, avrebbero raccolti favolosi in agricoltura, "potrebbero creare con la chimica gli organismi", insomma l'uomo diventerebbe bello e giusto e tutti si occuperebbero di idee superiori. Ma aggiunge amaramente che "è improbabile che simili entusiasmi possano durare anche una sola generazione".  Gli uomini si accorgerebbero di non avere più libertà di spirito, volontà e personalità, che gli sarebbero state rubate tutte insieme. Per farla breve, l'uomo diventerebbe consapevolmente bestia. L'uomo capirebbe che "un pensiero che non fatica non può non spegnersi" e che per amare il prossimo occorre sacrificargli il lavoro proprio. Poi subentrerà la noia e la malinconia, i suicidi si moltiplicheranno, ed infine inventeranno qualche nuova arma di sterminio di massa e la faranno finita, "perché la discordia riduce gli uomini all'insensatezza, all'oscuramento e al pervertimento della mente e dei sentimenti" (Pag. 254/5 op. cit.). Come è possibile constatare Dostoevskij  ha previsto con largo anticipo la generazione della noia, del disprezzo, del disgusto, in una parola la generazione delle "pesone dall'odio duraturo" contro la vita. E naturalmente il bastone del comando sarà tenuto da persone che commettono mascalzonate ed elevano a principio la propria mascalzonata "assicurando che in essa è l'ordre e la luce della civiltà" finendo per credere a  quello  che pensano e fanno.
La tecnica oggi è stata elevata dai nostri pensatori alla dignità dell'altare. E' il novello Dio che tutto prevede, ordina, risolve. Largo alle macchine e abbasso l'uomo, il moderno schiavo della Tecné. E' incredibile: la macchina, che è un'invenzione umana, viene costruita in modo tale che l'uomo ne diventi succube. Quando ogni giorno vediamo per strada migliaia di persone che non fanno altro che inviare messaggini telefonici a destra e a manca (è solo un
  esempio) possiamo toccare con mano l'idiozia umana. Chi ha inventato quell'apparecchio lo reclamizza come conduttore di felicità; chi ne abusa secondo i cattivi indirizzi di gente interessata economicamente non fa altro che abdicare al proprio buon senso che si limiterebbe a fare di esso il giusto uso in caso di necessità. Quanto tempo rubato alla riflessione, alla vera filosofia, alla meditazione, alla vera ricerca di se stessi! Ci hanno rubato il cervello ed il cuore e siamo diventati delle misere macchine; abbiamo mortificato la ragione per il divertimento ad oltranza. Quando Prometeo sfidò l'ira dell'Olimpo per portare con il fuoco la scienza all'uomo, voleva solo renderlo meno schiavo, meno animale; voleva che mettesse in moto la ragione per scoprire le verità della natura e di se stesso. Quella trasgressione non era dettata da un capriccio, ma da compassione per il genere umano: era un ponte lanciato fra la metafisica e la fisica. Non prevedeva certo che l'invenzione della scrittura e della penna o del computer avrebbe favorito una valanga di libri che, invece delle verità scoperte o in corso di svelamento, che invece di narrare del bello, del buono e del giusto vincitori sempre sul brutto, sul cattivo e sull'ingiusto (attenzione: quando diciamo bello, buono e giusto, parliamo di interiorità e non di mere apparenze), cantano le qualità della noia, del disprezzo, del disgusto, del marcio, del vizio in genere. Per non parlare della scienza suicida e di altro ancora. Non possiamo occuparci della tecnica, perché l'argomento ci porterebbe troppo lontano. Torniamo quindi al nostro tema.
Nell'articolo di Febbraio I lo scrittore anticipa quello che culminerà in Proust nel
  recupero del passato, e cioè il tuffo involontario nel passato partendo da un particolare insignificante (vedere pag. 274 op. cit.). Ma a differenza dello scrittore francese, non fa di tale recupero lo scopo della recherche di tutta una vita. Troppo forte è il cristianesimo nell'animo di ogni russo, perché i principi evangelici sono stati applicati per secoli da quel popolo di altruisti. L'amore per il passato è solo una scheggia d'amore, un fiume che come un salmone risale alla sorgente, mentre l'amore per tutto è un oceano di coscienza in espansione che tutto abbraccia e vivifica.
Spesso Dostoevskij
  si occupa di processi, di giudici e di avvocati allorché commenta fatti di cronaca che finiscono in tribunale. In A proposito del processo Kroneberg parla del caso di una  bambina di sette anni che viene frustata dal  padre che verrà assolto in tribunale. Tale assoluzione indigna lo scrittore, che mettendo a nudo tutte le fasi del processo ne svela le bugie e le storture. Se la prende con tale padre non certo affettuoso, con i giurati, con l'avvocato, col giudice. Gli avvocati sono bricconi sempre pieni di risorse, padroni di sé, e soprattutto si arricchiscono sempre. Una tortura come quella del padre che frusta una innocente bambina, riescono a farla diventare punizione, e la stessa bambina, che è un angioletto, riescono a farla passare per bugiarda, sudiciona, scaltra, astuta, ecc.  Con una analisi psicologica da manuale, Dostoevskij  è in grado di smascherare il trucco con cui l'avvocato altera la realtà. Nella fattispecie l'avvocato Spasowicz riusce a smontare ogni traccia di compassione che il giurato ha per la bambina, agisce sulla psiche di esso  riuscendo persino a far passare per ladra una piccola che prende una prugna senza permesso. Quanto poi a convincere la stessa bambina che per tale prugna non autorizzata  è una ladra, è un gioco da ragazzi. E le povere vicine di casa, le testimoni che accusano di violenza il padre, vengono accusate di essere delle cattrive maestre per la piccola. Infine si fanno passare per macchie subcutanee di colore paonazzo le lacerazioni della pelle della bambina causate dalle frustate e la causa viene vinta dal padre, da un padre violento che va solo condannato per la sua crudeltà.  Ed ecco che rivolgendosi a questo abile e briccone d'avvocato, Dostoevskij , dopo aver ammesso che un padre deve educare i propri figli e quindi ha il potere di infliggere punizioni corporali (siamo nel 1876), non può oltrepassare certi limiti: "Sul serio voi non sapete quale sia il limite di questo potere …? Se non lo sapete, ve lo dirò io…Il limite di questo potere sta nel fatto che non si può fustigare una piccola di sette anni, pienamente irresponsabile di tutti i propri vizi…Non si può fustigarla per un quarto d'ora intero, senza dar retta alle sue grida…Non si può infine dire di aver fustigato a lungo fuori di sé, incoscientemente, come capitava,  perché non si può essere fuori di sé, perché c'è un limite ad ogni collera…" (Op. cit. pag. 303). I bambini sono, aggiungerà, pietosamente indifesi, e la famiglia si crea con l'instancabile opera dell'amore. Una società che smetterà di avere compassione dei deboli e degli oppressi si indurirà, si inaridirà e diventerà dissoluta e sterile. Poi concluderà il bellissimo articolo osservando che la professione dell'avvocato è sì una brillante istituzione, ma è anche triste, e che lui non ce l'ha con tali professionisti: "Io sono un incorregibile idealista; io cerco le cose sacre e le amo, il mio cuore ne è assetato, perché sono fatto in modo che non posso vivere senza cose sacre" (pag. 311 op. cit.).
Ieri sera (Martedì 25 Settembre 2007) proponevano su una rete televisiva quell'orribile film di Kubrick che porta il titolo di "Arancia meccanica" da noi visto negli anni settanta e di cui conserviamo ancora il disgusto. Non avevamo alcunissima intenzione di rivederlo, ma per caso ci siamo imbattuti sulla presentazione dello stesso. Tutti ad osannare il maestro (oggi si dà il titolo di maestro anche a gente che dovrebbe essere ricoverata in manicomio) e a sottolineare la bontà (!) del film. Qualcuno, che aveva l'aria di strizzacervelli, addirittura proponeva di mostrarlo ai bambini delle elementari: così avrebbero preso coscienza che esiste negli uomini un lato ombroso. Ora, dopo avere ricordato per l'nnesima volta che la psicoanalisi
  di Freud e di tutti i suoi seguaci non è una disciplina  scientifica e che pertanto le sue teorie sono solo congetture non provate da alcun metodo sperimentale, sappiamo tutti che il male alberga in noi, ma non per questo, dopo averne constatata la presenza prendiamo tale spazzatura e la sbattiamo in faccia al mondo intero. Ne prendiamo coscienza e apriamo una valvola di sfogo che possa far defluire tutta l'energia negativa accumulata. Proporre di far vedere a bambini di sei-dieci anni un film del genere ci sembra proprio da irresponsabili. Dopo questo film che proporremo a questi piccoli, di commettere atti di violenza sui loro compagnetti per prendere immediata conoscenza di questo lato oscuro? E allora spalanchiamo le porte delle carceri e lasciamo che stupratori, assassini, ladri, spacciatori, e crema discorrendo, insegnino ai nostri figli per le strade delle nostre città a prendere coscienza del male che alberga all'interno dell'uomo: la via diretta. Quale sublime alchimia, quale metodo pedagogico!
Pur di fare ascolti e passare sempre più pubblicità commerciale oramai, nelle tv private e pubbliche si è disposti a tutto. La spazzatura ci sta sommergendo, ma non colpisce solo al naso, tocca anche e soprattutto il cervello. Spazzatura sottile questa, pattume di prima qualità perché sparso da gente col medagliere sulla giacca. Un bombardamento giornaliero di tali cattivi maestri sta ormai convincendo la totalità delle persone che la mondezza è buona e che gli odori puzzano. E chi dovrebbe vigilare sull'educazione e l'istruzione dei nostri figli propone di aumentare la dose minima di droga con cui i giovani possono suicidarsi lentamente. Hai proprio ragione Fedor:
"Senza ideali, cioè senza desideri di cose migliori, sia pur soltanto appena determinati, non può mai aversi una buona realtà" (pag. 317 op. cit.), ed hai ancora ragione quando affermi che "i più impudenti retrogradi si spinsero talvolta avanti, come progressisti e guide, ed ebbero successo" (pag. 355 id.).
 E importa poco che tu ti riferissi ai fanfaroni di certe vostre rivoluzioni: in tutti i campi, spesso, sono proprio questi cialtroni che pretendono di fungere da faro per la società. Come è possibile, Fedor, che simili idioti possano impunemente attentare alle "prime tenere, sacre credenze infantili"? (sono parole tue). La ciarlataneria, caro amico, è alla continua caccia dell'effetto e del pulpito. "Le idee semplici, chiare, generose e sane" non sono più di moda perché non riescono a mettere sotto i riflettori della cronaca. Per essere in vista il ciarlatano è disposto a scalare montagne di letame, e poi, da lassù in cima, con arte sopraffina ti racconterà che ha appena scalato l'Everest senza bombole d'ossigeno e a torso nudo. Il nichilismo sta divampando caro Fedor, ed è peggiore di quanto tu abbia potuto immaginare. Tu vagheggiavi per la tua Russia e per tutti i popoli slavi delle repubbliche cristiane sul tipo delle repubbliche islamiche, noi qui, oggi, siamo cittadini di repubbliche nulliane.                             
Nell'articolo del Novembre 1877 il nostro giornalista-romanziere (pag. 1141 op. cit.) dà una definizione della parola "Strjuckie": l'uomo meschino e insignificante, le cui principali peculiarità sono vuotezza, isulsaggine, mancanza di cervello, mancanza di base morale. Insomma "Strjuckie" come nullità sfacciata. Ci informa anche che "di tali uomini c'è abbondanza anche nei circoli intellettuali e nei circoli di persone di alto rango". Quanti Strjuckie nella società odierna: cantantucoli che si atteggiano a guru spalmando serate tv col vuoto assoluto; attoruncoli che declamano versi di grandissimi poeti del passato  per nascondere la loro nullità; attricette che si atteggiano a pedagoghe e cospargono di insignificanza le serate televisive. E via discorrendo. Ma è poi proprio inutile questo nostro ripetersi, perché  si rischia di emulare Don Chisciotte? Noi siamo convinti di no. Chissà, magari le nostre piccole battaglie contro il nichilismo dilagante possono ricordare a chi si degna di leggerci le gesta del Chisciotte di Cervantes e quindi  spingerlo a rileggere quel "grande libro" (così lo definisce Dostoevskij, aggiungendo che "libri simili vengono mandati all'umanità a distanza di secoli", e che "la conoscenza di questo testo  nelle scuole "innalzerebbe l'anima del giovane con un grande pensiero, lascerebbe cadere nel suo cuore grandi problemi e contribuirebbe ad allontanare la sua mente dall'eterno e stupido idolo della mediocrità, dalla presunzione soddisfatta di sé…" (pag. 1081, 1082 op. cit.). Una vera apologia di questo romanzo la si può trovare proprio nell'articolo Settembre II del 1877, ove per parlare di politica internazionale lo scrittore  si serve proprio del romanzo di Cervantes.  E noi dobbiamo smuovere mari e monti per parlare dell'ovvio, del buon senso, della virtù innata nell'uomo, per opporre una piccola diga alla marea di fango nichilista. Dobbiamo scomodare Dostoevskij, Cervantes, Goethe, Schelling, Spinoza, Jung, Rousseau, Bach, Omero, Platone, Plotino, e mille altri pensatori, per dare più peso  e più forza alla nostra azione.
La nostra è un'epoca di transizione e di disgregazione. Il nichilismo è solo una parentesi ed una moda per intellettuali annoiati e furbi che con le loro opere oltre al danno ai cervelli dei giovani e dei non più giovani procurano a loro stessi un sacco di soldi. "
Ogni stato transitorio e di disgregazione della società
genera pigrizia e apatia, perché soltanto pochissimi, in tali epoche, possono vedere chiaramente davanti a sé e non perdere la strada. La maggioranza si confonde, perde il filo…" , dice Dostoevskij in un interessantissimo articolo del Luglio-Agosto I che ancora una volta anticipa "intuizioni" freudiane parlando della famiglia e di problemi sociali in genere. In fin dei conti quello che più ci preme è di far rinverdire il senso critico nei giovani, affinché possano con un atto di semplice buon senso tornare a distinguere il bello dal brutto, il buono dal marcio, il bene dal male. La bellezza è stata uccisa dai nientisti e noi ne auspichiamo il ritorno in ogni settore della società. I nostri ragazzi devono subire l'innesto del bello, perché "senza i germi del positivo e del bello l'uomo non può dall'infanzia entrare nella vita; senza i germi del positivo e del bello non si può mettere in moto una generazione"
Sì, Fedor, quelle religioni col culto del non essere e della autodistruzione in nome della eterna pace nel nulla (Pag. 885, id.) che comparvero ai tempi tuoi, imperversano ancora e la loro bandiera porta impresso il brutto e il marcio.
Noi dei tuoi scritti non condividiamo tutto, ma ammiriamo i tuoi sforzi per rendere l'umanità migliore di quello che è. Molti temi da te trattati nel tuo "giornale" non li abbiamo nemmeno sfiorati: questione slava, cattolicesimo, radici cristiane dell'Europa, qualche discorso sulle lettere, ed altro ancora. Questo nostro breve saggio non poteva andare oltre questa lunghezza.
  Pertanto, nel ringraziarti, lo concludiamo.

Grazie, Natale Missale



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