Il Piccolo Faust di Giacomo Leopardi
"Dialogo di Malambruno e di Farfarello"

 

Malambruno, grazie alle sue arti magiche invoca cinque spiriti dell'abisso, quindi scongiura e comanda nel nome di Belzebù che almeno uno di essi venga a lui con potestà d'uso di tutte le forze dell'inferno e per rimanere al suo servizio. Dei cinque si presenta Farfarello, il quale ammette subito di poter fare, avendone ricevuto il potere, tutto quello che può fare Belzebù in persona o tutte le schiere dell'abisso insieme. Lo spirito chiede subito se Malambruno desidera nobiltà, ricchezza, imperi, donne, onori o buona fortuna. Ma quello risponde che nulla di tutto questo desidera. E quando Farfarello quasi spazientito chiede: "In fine, che mi comandi?" Malambruno gli risponde: "Fammi felice per un momento di tempo". Lo spirito dice subito che non lo può accontentare, e quando quello lo minaccia col potere della sua magia gli dice che fargli del male non servirebbe a nulla: non può proprio accontentarlo. Punto e basta. Malambruno chiede allora che venga Belzebù in persona. Ma quello risponde che nemmeno il gran capo accompagnato da tutte le schiere infernali può esaudire quel desiderio.  Malambruno chiede allora che, non potendo conseguire la felicità nemmeno per un solo istante, venga almeno liberato dall'infelicità. Questo può esser fatto, dice Farfarello, ma ad una condizione: che il richiedente rinunci all'amore di sé.  Ma ciò è impossibile a qualunque forma animale sulla terrra, gli dice Malambruno. A questo punto il maghetto si abbandona a considerazioni filosofiche: la felicità non è conseguibile; l'infelicità non ci abbandona, nel corso dell'intera vita, nemmeno per un istante; il non-vivere è in ogni caso meglio del vivere. Ed ecco che Farfarello lo porta alla conclusione logica:  se la privazione dell'infelicità è meglio dell'infelicità: " …Se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela".  (Leopardi - tutte le opere - Sansoni, ed. novembre '69 - pag. 96).
Come è possibile vedere, il tema è lo stesso del Faust di Goethe: la ricerca di almeno un solo attimo di felicità nel corso di un'intera vita. Come sappiamo, al povero grandissimo Giacomo Leopardi, questa felicità è stata negata. Prigioniero del suo tempo, del suo carattere, della sua famiglia, della sua inattualità (la stessa che condannò all'incomprensione della loro epoca anche Mozart e Nietzsche), non ebbe, a differenza di Goethe, le forze per combattere la battaglia della vita. Questo piccolo abbozzo di patto con Mefistofele è delicato, quasi evanescente. Non ha la forza dell'alchimista goethiano che sfida il maligno. Esso è l'immagine dell'uomo Leopardi: un genio che in punta di piedi ha attraversato il suo tempo soltanto per cantare con i toni più malinconici, più tristi e toccanti il suo immenso dolore, la sua sconfinata infelicità, la sua triste esistenza. La sua forza e la sua vita le ha riversate nei suoi canti. Chissà se si è mai accorto - lui ateo convinto e forse primo dei nichilisti - di avere, con tali suoi immortali versi, spazzato via i confini del suo corpo e della sua mente  e di aver dato vita ad una nuova costellazione, un nuovo archetipo della bellezza. Il bello, quello vero, non è di questo mondo. Echi di quella bellezza, purtroppo bagnati di sofferenza, sono  nei suoi capolavori irraggiungibili. Anche Lord Byron era stato segnato alla nascita (era zoppo), ma la sua bellezza gli diede forza. Il nostro Giacomo, massacrato da studi "forzati" ridusse il suo già gracile corpo ad una larva. Ecco perché tanta attenzione alla luna, alla penombra, alla falsa luce. Ecco perché il sole viene ignorato. E mentre sull'albero del corpo  maturavano i frutti della più disperata malinconia, su quello della sua grande anima nascevano versi con le ali.  Povero piccolo Faust: non seppe tenere testa al più insignificante dei Farfarello! Povero piccolo grande Giacomo!

Grazie, Missale Natale.



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