Rohde e l'anima
 

Erwin Rohde  nacque ad Amburgo nel 1845 e morì a Heidelberg nel 1898. Egli è famoso per due "cose": per aver scritto Psiche, culto dell'anima e credenza nell'immortalità presso i greci, e soprattutto per essere stato l'amico del cuore di F. Nietzsche. Dedicheremo a questa sua importante opera un breve saggio, ma prima vorremmo succintamente parlare di questa importante amicizia. Lo facciamo per due ordini di motivi: 1° per completezza del nostro breve studio; 2° perché, con nostra grande sorpresa, in tutta questa sua opera, Rohde non cita mai il suo amico fraterno Friedrich Nietzsche (Rocken 1844 - Weimar 1900), verso cui, a nostro parere, era debitore di qualcosina.
Nel 1865 Nietzsche si immatricola all'Università di Lipsia nella facoltà di Filologia Classica. Qui conosce Rodhe. Massimo Fini, nel suo Nietzsche, l'apolide dell'esistenza, ci informa che era un ragazzo alto, bello, snellissimo, sensibile e  pieno di temperamento, che lui e Friedrich stavano insieme tutta la giornata fra studi, chiacchierate, passeggiate, concerti, teatri. I loro rapporti di amicizia si sarebbero guastati alle prime opere filosofiche di Nietzsche. Giorgio Penzo, nel suo Nietzsche allo specchio, ce lo descrive come scontroso, testardo e solitario. Chi volesse sapere di più su tale straordinaria amicizia può leggere il corposo epistolario Nietzsche-Rohde, che abbraccia l'arco di 9 anni, dal 1867 al 1876, e che, a detta di Penzo, "può essere considerato nella letteratura mondiale tra i più belli nel suo genere" (Op. cit. pag. 17).
Diciamo subito che quest'opera, scritta da un filologo di fama internazionale, è per addetti ai lavori (le migliaia di citazioni in lingua originale lo testimoniano), ma può essere agevolmente letta anche da non addetti. Psiche  è un classico nel suo genere, e chi vuole affrontare un serio studio sull'anima non può prescinderne.
La prima cosa che Rohde ci fa notare nella sua introduzione alla prima edizione è che la religione, presso i greci, non nasce da libri religiosi in  cui riconoscere il senso profondo di essa, e che unico documento della vita religiosa greca sono le opere dei poeti e dei filosofi. Questo è verissimo, ma basta prendere in mano e sfogliare una qualunque storia delle religioni, per rendersi conto d'un fatto: in ogni luogo e in ogni tempo la religione nasce ad opera del misticismo. In greco Musticos, ossia mistico,  vuol dire  "che riguarda l'iniziato ai misteri", e cioè colui che in qualche modo è riuscito a unire la propria anima al Divino. Questo vuol dire innanzitutto che il mistico, in qualche modo ha scoperto la sua vera essenza, ne ha tastato i "confini", ne ha percepito le origini, e soprattutto ne ha sperimentato l'esistenza. Quando Platone, con la sua seconda navigazione, darà vita alla metafisica filosofica codificata, un fiume sotterraneo di misticismo, che secondo noi ha bagnato pure lui, ne ha preparato l'avvento. Né ci meravigliermmo se un domani, qualche archeologo, qualche filologo, od uno scopritore occasionale portasse alla luce tracce documentate di questo fiume. Pensare che una religione nasca esclusivamente dalla poesia o dalla speculazione filosofica, ci pare proprio impossibile: solo l'esperienza di un mistico può creare una religione e una fede. Se vuoi far credere a qualcuno che esiste Parigi, ne devi mostrare la foto o un documentario; se vuoi che qualcuno creda nell'esistenza di un'anima e di un Dio, è necessario darne prova in qualche modo. Quelle del poeta e del filosofo possono essere sì intuizioni molto vicine all'essenza della religione, ma la sostanza del Giudaismo, del Buddhismo, dell'Induismo, del Cristianesimo, dell'Islamismo ecc., sta nella "Santità" dei loro fondatori, nelle loro opere. Insomma, un incendio può scoppiare solo se si accende un vero fuoco, e non un racconto in versi del fuoco o un quadro con fiamme dipinte. Ma nonostante queste nostre convinzioni, dal punto di vista storico, archeologico, filologico, ecc., Rohde ha perfettamente ragione: le opere dei poeti e dei filosofi sono gli unici documenti della religione greca. E' per questo che il nostro filologo amico di Nietzsche, fin dalle prime pagine della prima parte della sua opera, dirige la sua attenzione alla fede e al culto delle anime nei poemi omerici. E' nell'Iliade e nell'Odissea che incontriamo per la prima volta psiche (l'anima): essa fa la sua comparsa solo nel momento in cui il corpo muore, sprofonda nell'Ade, e come un'ombra comincia a vagare. Rohde si chiede come pensare questa psiche, e conclude che il suo nome designa qualcosa di aereo, simile al soffio, "che nel vivente si manifesta nell'alito". Quando sopraggiunge la morte essa lascia il corpo dalla bocca o dallo squarcio di una ferita. Ma chi è il vero uomo, il corpo o l'anima? Secondo Omero, dice il nostro autore, "l'uomo esiste due volte, l'una nella sua forma sensibile, l'altra nella sua immagine invisibile, che si libera solamente colla morte".  E se i popoli primitivi attribuivano grande potenza alle anime, Omero non parla di alcuna potenza dell'anima nel mondo dei vivi. Tuttavia,  il culto delle anime, nei suoi poemi, è molto sentito, anche se, una volta giunte all'Ade esse non hanno più alcuna importanza. Rohde si sofferma sui passi dell' Iliade (morte e funerali di Patroclo) e dell' Odissea (discesa all'Ade di Ulisse) in cui si parla di anime dei morti.
Ma a volte, alcune anime, per volere degli dei vengono rapite e condotte all'Isola dei beati, che però fa ancora parte di questo mondo, pur essendone ai confini. Sono i Campi Elisi. Tutto ciò ricorda molto i "rapimenti" biblici di Enoc ed Elia.
Rohde, dopo avere diffusamente parlato delle divinità delle caverne, del culto delle anime e degli eroi (questi ultimi assomigliano tanto ai figli nati dall'unione fra i figli di Dio e le figlie degli uomini in Genesi 6, 1-4: "Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero… i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi") affronta i Misteri di Eleusi.  Questi si celebravano nei mesi di Febbraio e Settembre in onore della dea Persefone e di sua figlia Demetra. Il loro scopo pare fosse quello di assicurare l'immortalità e la rinascita. Ma i dettagli di tali misteri non si conoscono. Potrebbe perciò tornare utile ripassare il mito di Demetra, Persefone (la Proserpina dei romani) e Ades (il Plutone dei romani). Demetra è figlia di Crono e di Rea, e perciò sorella di Zeus. Per i Greci essa era dea della fecondità della terra e della vegetazione. Quando sua figlia Persefone era Core (cioè fanciulla), un giorno, mentre si trovava in compagnia di ninfe in un campo fiorito, fu rapita da Ades che con una quadriga la portò agli inferi. La madre, disperata, si vestì di nero e cominciò a girare la terra in cerca di sua figlia. Infine, saputo il nome del rapitore, si rivolse a Zeus perché la  liberasse, e per obbligarlo a farlo rese sterile tutta la terra. La razza umana era in pericolo di estinzione. Intanto però, Persefone si era innamorata di Ades ed era divenuta regina degli inferi. Si stabilì allora che essa sarebbe stata con la madre due terzi dell'anno, e col marito, un terzo. E così la terra riprese a dare i suoi frutti. Ora, quando Demetra, disperata, cercava sua figlia, si trovò a passare da Eleusi, e siccome gli abitanti di tale città l'avevano accolta bene ed avevano eretto un tempio in suo onore davanti alla città, in segno di gratitudine, insegnò loro il culto sacro, " e fece loro conoscere le sacre orgie". In origine il segreto di tali riti fu rivelato ai quattro principi della città e ai loro discendenti. La promessa solenne per chi avesse partecipato a tali cerimonie era particolare: "Beato l'uomo, che ha veduto queste sacre funzioni: ma chi non è iniziato e non ha partecipato alle sacre cerimonie, non avrà uguale sorte dopo la morte, nelle cupe tenebre dell'Ade" (Psiche - Rohe - ed. Laterza, pag. 233). Da Eleusi, poi, in Atene quello eleusino divenne culto di stato, a cui si mescolarono altri culti locali.
A questo punto Rohde fa un'affermazione importante, relativa alla discussa tesi secondo cui dottrine orfiche siano penetrate nei misteri di Eleusi, che noi riportiamo: "Chi non si accontenta delle ciarle solennemente vuote sugli Orfici ed affini, ma prende a considerare le dottrine, ben distinte e precise,  degli Orfici sopra gli dei e le anime umane, scorgerà facilmente che tutto impedisce di  credere che anche soltanto qualcuna di esse sia penetrata nella cerchia delle concezioni dominanti ad Eleusi. Esse non avrebbero potuto che distruggerla" (op.cit. Pag. 237).  E in una nota relativa a tale passo, Rohde precisa che "…Nemmeno gli antichi giunsero mai ad affermare che Orfeo, il gran maestro di ogni possibile misticismo, abbia qualche relazione particolare colle feste eleusine: come dimostra il Lobeck…".  Una cosa è certa: la festa era un collettivo rito purificatore, ma quello che avveniva all'interno del tempio nessuno lo sa. Ed il nostro filologo sottolinea come il mistero imposto agli iniziati ed agli Epopti sia stato ben mantenuto. La cosa importante ai fini del nostro discorso è che ai partecipanti alla festa, ed a maggior ragione agli iniziati, veniva assicurata ricchezza in vita e una sorte migliore dopo la morte. Solo agli iniziati ai misteri "è concesso vivere veramente nell' Ade". E sono state queste promesse di immortalità ad attrarre moltissimi a partecipare alle feste eleusine. Promesse che non venivano fatte nelle cerimonie segrete: tutte le fonti concordano. In altri termini, tale immortalità dell'anima non scaturiva da alcuna interpretazione dei misteri: era data per certa. E qui Rohde attacca apertamente quei mitologi e storici delle religioni che si tenevano tanto più fermi al principio  "che nelle rappresentazioni dei misteri eleusini abbia celebrato le sue vere orge la religione naturale greca" che essi avevano scoperto.  Secondo costoro "Demetra sarebbe la terra, Cora-Persefone, sua figlia, la sementa: il rapimento e il ritorno di Cora significherebbero il sotterramento del seme nella terra e lo spuntare del germoglio, ovvero, con una formulazione più larga, l'annuale perire e rinnovarsi della vegetazione" (pag. 241 op. cit.) Insomma tutta un'allusione all'anima umana che muore per poi rivivere. Secondo il nostro studioso, tutto ciò è da dimostrare. Al greco di quel tempo, "questa elevazione estetica dell'anima al sentimento della propria essenza divina", rimase estranea relativamente ai misteri di Eleusi. Questo accadrà con Platone. Ad Eleusi, dice Rohde " s'insegnava non che l'anima liberatasi dal corpo vive, ma come vivrà" (id. pag. 243). Ed alcune pagine dopo, in una nota,  aggiunge che "ad Eleusi non venivano prodigati insegnamenti di natura teologica o morale formulati con parole.
Ad un certo momento, in Grecia nasce il pensiero dell'immortalità dell'anima per via della sua natura divina. Esso è figlio del misticismo, una sorta di seconda religione che dapprima si diffuse in singole sette, e poi esercitò la sua influenza in alcune scuole filosofiche. Fu così, ci spiega Rohde, che nacque il concetto fondamentale di ogni misticismo: "quello dell'unità essenziale, dell'unione dello spirito divino con l'umano da ottenersi per mezzo della religione" (Id. pag. 278). La credenza nell'immortalità dell'anima appare in Grecia per la prima volta "nelle dottrine di una setta mistica che si univa nel culto di Dioniso". Il culto di questo dio aveva "carattere quasi orgiastico" ed era molto simile al culto della madre Cibele presso i Frigi. "La festa era celebrata sui monti, nella notte oscura, alla luce malferma delle fiaccole. Risonava una musica rumorosa; squilli di cennamelle bronzee, un cupo tonare di grandi timballi e, fra mezzo, il suono profondo dei flauti 'che invitano alla follia' …Eccitata da questa musica selvaggia la schiera dei festaioli danza tra le alte grida di giubilo. Di canti non sappiamo nulla; la violenza della danza, togliendo il fiato, li rendeva impossibili…era una danza circolare furiosa, vorticosa, precipitosa,  con la quale la schiera degli invasati percorreva di corsa le pendici dei monti. Per lo più erano donne che si aggiravano in queste danze vorticose, fino a sfinirsi; erano camuffate stranamente: indossavano delle 'bassare', lunghe vesti fluttuanti, di pelli di volpe, pare; sulle vesti, pelli di capriolo; sul capo, corna. I capelli ondeggiavano selvaggiamente; nelle mani hanno serpenti, sacri a Sabazio; brandiscono pugnali o tirsi le cui punte sono nascoste tra l'edera. Così esse infuriano fino alla massima eccitazione di tutti i sensi, poi, invase da 'sacro furore', si precipitano sugli animali scelti per il sacrificio, li afferrano, li  sbranano, strappano coi denti la carne sanguinolenta, la mangiano avidamente, cruda" (id. pag. 283-284). Dopo di che venivano colti da un'estasi ed avevano delle visioni. Lo scopo da raggiungere era proprio questa fortissima eccitazione. Il dio è presente nella festa tra i suoi adoratori invasati, oppure è nei pressi ed il baccano della festa serve a farlo avvicinare ancora di più. Infine esso compare fra le donne che danzano in forma di toro. Nell'eccitazione, chi riesce a diventare una sola cosa col dio viene chiamato Sabos, Sabazios. L'eccitazione poteva essere aumentata con bevande eccitanti. Allucinazioni, estasi, ecc., si spiegavano dicendo che l'anima era uscita fuori  dal corpo. "E' una mania religiosa, una santa pazzia in cui l'anima, fuggita dal corpo, si unisce con la divinità" (Id. pag 291). Ovviamente, in quello stato di sovreccitazione si prediceva il futuro.  Naturalmente il pensiero corre alle nostre moderne discoteche, dove al suono di musiche fortemente ritmiche, dopo essersi eccitati con bevande alcooliche, con spinelli, o peggio ancora con droghe pesanti, i nostri giovani, al lampeggiare di luci psichedeliche, si rovinano il corpo e la mente. Ma ci riserviamo di approfondire il paragone un'altra volta, per non appensantire questo breve saggio. Diciamo solo che, mentre in quelle antiche e furiose danze greche era presente l'elemento religioso, in queste ridicole discoteche è presente il più assoluto dei nichilismi, il materialismo puro. Questi giovani hanno letto Nietzsche e tutta la numerosa schiera di pseudo-filosofetti che ne hanno fatto il profeta del nulla, decretando la fine di ogni metafisica facendo da cassa di risonanza al grande pensatore tedesco, che drogando ogni singola sillaba della sua corposa opera con un fuende pericolosissimo, ha contagiato le menti di tanti cervelli privi di originalità, che da cento e passa anni non fanno altro che ripetere apertamente o velatamente l'apologia del niente di Nietzsche. Si direbbe che con questo filosofo, non sia morta la metafisica soltanto (come egli asseriva, cosa che noi non condividiamo), ma il mero pensare: dopo di lui, non più pensatori, ma vuoti imitatori, seguaci, fanatici tifosi. Questi filosofetti, abbagliati dalla "malata" poesia nietzschiana (pure noi ne abbiamo subito il fascino per qualche tempo, ma poi ne siamo guariti), hanno fatto la fine dei lotofagi: inebetiti. Non sono più stati in grado di pensare. Tutti a dire che Platone si è inventato il concetto di anima che prima non esisteva; che ha creato il concetto di metafisica; che ha ridotto il povero corpo a prigione dell'anima; che si è inventato un quasi Dio; ecc. ecc. ecc. Ma di questo parleremo in un apposito saggio.
Certo, pure i dervisci danzanti si "ubriacano" di danza, ma a spingerli a danzare è un forte amore per il divino, un'esigenza religiosa e mistica che nulla ha a che vedere col vuoto assoluto che circonda le migliaia di burattini che in discoteca sono mossi solo dai sensi staccati da ogni e qualsiasi anima, da ogni e qualsiasi Dio, da ogni metafisica, idealità, moralità, etica, da ogni progetto che non sia quello di celebrare il nulla, lo zero assoluto, la morte. Chiusa parentesi.
A questo punto, secondo il nostro filologo, alimentando il fuoco del culto estatico, indirizzando il pensiero verso un Dio unità del tutto, sull'essere eterno che sta a fondo di ogni cosa, e sulla metafisica in genere, tali pratiche religiose popolari danno vita al misticismo. Misticismo che per Rohde "nasce dalla fermentazione torbida e imperfetta di pratiche religiose popolari" (Id. pag. 303). Quest'ultima affermazione non la condividiamo.  Noi vediamo il popolo come il "semplice", come la terra più adatta ad accogliere insegnamenti altissimi che solitari mistici-veri-filosofi-e-saggi di ogni tempo hanno sparso come semi di prima qualità in quest'humus fertile. Non ci scordiamo che il Maestro Gesù scelse per discepoli non dei laureati o dei rabbini, ma dei pescatori e degli umili in genere, e fece di essi dei maestri di spirtitualità che per duemila anni hanno accompagnato milioni di ricercatori lungo il sentiero della ricerca della verità e della conoscenza di se stessi. Il troppo cervello atrofizza il cuore e l'intuizione. Solo il silenzio interiore può mettere la museruola a quell'ego gigantesco che non è nulla e che pretende di potere governare su tutto. Il vero filosofo, quello che ama veramente la verità, tacita l'ego senza bisogno di penalizzare il corpo, ma con una moderazione che gli permette di sintonizzare corpo, cuore e mente verso un Divino  che  intuisce esserci, dopo avere fatto della propria interiorità uno specchio pulito capace di riflettere non le fantasie malate di chi si eccita contro natura, ma la vera realtà dell'uomo: quell' essere, quell'Io Sono di cui Dio, in Esodo, dice a Mosé. Un Mosé che contatta la sua vera essenza la può solo esprimere, per dirla cartesianamente, così: Io Sono, dunque esisto. Ovvero la parte di Essenza Divina che vivifica la mia carne, i miei sentimenti e la mia mente, può affermare la sua esistenza, solo quando, la sua ombra, l'apparenza-ego, viene smascherata definitivamente per quello che è: nulla. Il filosofo falso è colui che allo specchio ama invece sentire la sua voce roboante, ama ascoltarsi attraverso paroloni che vorrebbero ridurre a pietra il suo pensiero tutt'altro che solido; è colui che, non rendendosi conto di essere una "pianta" unica al mondo, imita altre piante, perdendosi l'occasione di essere quello che è, per emanare il profumo che gli è toccato in dote. Sono questi, lo ripetiamo, non amanti della Sofia, ma tifosi del nichilista di turno, sono amanti della morte e non della vita. Verità e Vita coincidono, e formano la Via. Nella prefazione al volume primo della sua monumentale Storia della filosofia greca e romana,  che invitiamo tutti a leggere, quell'onesto studioso che è Giovanni Reale, chiama costoro "personaggi truccati": "In sostanza, oggi, molti filosofi e cultori della filosofia, o sedicenti tali, restano - per dirla con immagine di moda - in certa misura personaggi truccati, cioe`inautentici, incapaci di prendersi fino in fondo la loro responsabilità. Personaggi, in altri termini, che non vorrebbero rinunciare né all'ambizione filosofica né a quei vantaggi empiricamente più apprezzabili e più concreti che vengono offerti dalla scienza,  dalla tecnica e dalla politica".  (Op. cit. pag. 10). Ma a questi filosofetti sfugge, e ce lo ricorda bene il Reale, che "scienza e tecnica sembrerebbero addirittura un trionfo straordinario della ragione. Si tratta però di una ragione che, una volta smarrito il senso dell'intero, esalta le parti e le colloca al posto dell' intero".  (id. pag. 11). Giovanni Reale, uno dei massimi studiosi della filosofia greco romana e di Platone in particolare, ha perfettamente ragione. Tali pseudo filosofi si appoggiano a scienza e tecnica come a delle stampelle, per ridicolizzare discorsi metafisici che, secondo loro, dalla tecnica e scienza, con la loro sfolgorante luce vengono ad essere ridotti a balbettii del sapere umano. Basta leggere le loro opere (?) per rendersi conto di ciò. Cavalcano i lumi del nichilismo solidificatosi alla base dell'edificio tecnico-scientifico, ed hanno smesso di usare la mente. Ma c'è di peggio. A volte partono da una tesi politica per costruire teorie filosofiche. Siamo alla frutta filosofica. Hanno demandato a scienza e tecnica il supremo compito di conoscere se stessi, ma così facendo otterranno sempre più capillari conoscenze di parti di se stessi e non della loro interezza, ed alla fine conosceranno tutto di questo o quel gene, ma sconosceranno se stessi. A nostro parere, lo "scienziato", più scrupoloso che esista è il mistico. Un esempio per tutti.  Jacob Bohme (che fra parentesi veniva dal volgo - era calzolaio - sig. Rohde) attraverso lo studio della propria totalità ha conosciuto se stesso molto più approfonditamente di quel vescovo che lo perseguitò per tutta la vita e che anziché scavare nella propria miniera, si sporcava le mani nelle caverne degli altri, che oltretutto erano povere di "metalli preziosi" o se volete di "materie prime". Bohme, con i suoi libri, frutto della sua esperienza, quindi veri, ha influenzato filosofi e pensatori di tutta Europa, ed ancora oggi è letto ed apprezzato, nonostante il computer su cui scriviamo, il telefonino che ci consente di raggiungere ogni parte del mondo, nonostante la tecnica e la scienza. Ma, ancor di più: nonostante tanti filosofetti da quattro soldi. Qualcuno di essi, dopo essersi sottoposto ad autoanalisi e ad analisi didattica ed avere letto Nietzsche  crede di avere ottenuto la cattedra d'onnipotenza e d'onnisapienza. Crede di avere il monopolio della verità e si permette di buttare fango sul pensiero di veri filosofi. Ma il tempo sarà giudice, se politica e chiasso non continueranno a comandare anche sul pensiero vero.
Giovanni Reale conclude la sua prefazione al primo volume sopracitato riportando la profondissima epigrafe scritta da Paul Valéry e che si trova sopra l'ingresso del "Museo dell'Uomo" a Parigi: "Che io sia tomba o tesoro / che parli o taccia / dipende da colui che passa / non dipende che da te / amico non entrare senza desiderio". Ebbene, prendendolo a prestito, noi diciamo parafrasando che, senza autentico desiderio di conoscersi è inutile entrare nella propria interiorità, nella propria miniera, per trovare l'oro dei filosofi: la SAPIENZA. O si è totali, o ci si impegna "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze", o non si ottiene nulla. Quando un filosofo inforca gli occhiali con lenti colorate politicamente ed osserva se stesso ed il mondo attraverso di esse, è destinato a prendere delle cantonate madornali. La mente del pensatore deve essere aperta a 360°, se no, lo ripetiamo, ci troviamo in presenza non di un amante della Sofia, ma di un tifoso.
Certo, il tema della danza sfrenata eseguita su ritmi ossessivi e la guarigione dovuta ad essa, ci ricorda anche l'analoga guarigione promossa da movimentatissime tarantate nel tarantolismo pugliese. Ma questo lo diciamo solo come spunto per chi volesse approfondire il tema della psiche anche in quella direzione. Noi non lo faremo per questioni di spazio e di tempo.
Poco a poco, nelle feste dionisiache entrò anche il dio Apollo e conseguenti oracoli. Tutto questo mentre ci si avvicina a gran passi verso il periodo dell'indagine filosofica. Siamo quindi in un momento di trapasso, e "notizie semifavolose" (così le chiama il Rohde: pag. 344 op. cit.) parlano di  "grandi maestri dalla sapienza misteriosa", più maghi che razionali. "Sono tutti veggenti estatici e sacerdoti purificatori". E qui vengono citati Ermotimo di Clazomene che aveva esperienze di distacco dell'anima dal corpo; Epimenide di Creta, di cui si conoscono aspri digiuni,  lunghe estasi dell'anima, rapporti con gli spiriti delle tenebre, e pienezza di sapienza entusiastica. La cosa da sottolineare a proposito di questi visionari, però, è un'altra: già Ermotimo ammetteva (più tardi fece lo stesso il suo concittadino Anassagora) la distinzione tra il puro spirito e la materia in base a sue personali esperienze: "Le estasi dell'anima, di cui Ermotimo stesso e tutta quest'età di veggenti estatici ebbero tanta esperienza; facevano della divisibilità dell'anima dal corpo e della sua esistenza superiore durante la separazione, una cosa ampliamente dimostrata" (Id. pag. 352).  Questa superiorità dell'anima portò a vedere nel corpo un intralcio, un contaminatore, e così "la religione greca parve sul punto di divenire una religione di purità, quasi un bramanesimo e uno zoroastrismo occidentali" (id. pag. 352). La morale, di pari passo, divenne "teologico-ascetica", ed una tendenza alla ascesi si affermò sempre più. Questo, il panorama pre-filosofico. Siamo così arrivati al VI° secolo a.C. ed all'orfismo.
Orfeo veniva ritenuto l'introduttore del culto di Dioniso. In questo periodo si affermò "una teosofia che tendeva a diventar filosofia, ma tendenza rimase. A questo punto nasce il problema se fu l'orfismo ad influenzare le scuole pitagoriche o viceversa. Secondo Rohde è da escludere questa seconda ipotesi, e rimane nel dubbio la prima. Forse, quando Pitagora venne nel meridione d'Italia attorno al 532 a.C., orfismo e pitagorismo vennero a contatto. Fatto sta che le cosmogonie cominciavano già a presentare gli dei in maniera diversa. "Giove …assorbito in sé il dio ch'è in ogni dove…è divenuto il Tutto" (id.363). I Titani uccisori e smembratori di Dioniso divennero il male, ed il dio smembrato, il bene.  E' qui, nella dottrina orfica che per la prima volta l'uomo viene invitato a liberarsi dai legami del corpo, di cui l' anima è prigioniera. Ed ancora qui, che per la prima volta, col cosiddetto " ciclo delle necessità" (rinascite), si parla "dell'eterno ripetersi di tutti gli stadi della vita già vissuti", che Nietzsche ribattezzerà "eterno ritorno dell'uguale", sia pure con sfumature diverse. E così, l'ascetismo diviene fondamentale per la "liberazione". Nasce il sacerdozio ed il Karma: all'uomo verrà fatto cio` che lui ha fatto ad altri. Solo la purificazione in vita, tramite l'ascetismo e il vegetarianesimo, può liberare le anime da questo ciclo di rinascite.
Da qui in avanti, Rohde si occupa della filosofia e quindi di come l'immortalità dell'anima si sia affermata non più col misticismo ma con la ragione. Ma noi concludiamo questo nostro breve saggio proprio all'apparire di Talete, il primo filosofo che ha sostenuto l'immortalità delle anime. Riprenderemo il discorso in una altro saggio, che avrà titolo Platone e l'anima, e ci avvarremo degli studi di uno dei più famosi studiosi della filosofia greca: Giovanni Reale, del cui pensiero condividiamo tutto.

Grazie, Natale Missale



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